Su Palu 1993, a cura di Franco Delogu

29.11.2012 22:20

 

 

L'entroterra del Golfo di Orosei é costituito da un grande massiccio carbonatico che ha generato imponenti fenomeni carsici, tra i più importanti della Sardegna. Basti pensare alle grotte del Bue Marino e di S. Giovanni - Su Anzu a Dorgali, e al sistema Su Palu - Suspiria (o Montes Longos) a Urzulei: quest'ultimo complesso, con uno sviluppo che attualmente si aggira intorno ai 40 chilometri, è il più vasto in Sardegna e uno dei maggiori in Italia.
Le grotte di Su Palu e Suspiria si aprono entrambe a pochi metri dall'alveo del torrente Codula Ilune, sul fondo di un gigantesco canyon che comincia a quote vicino agli 800 metri e dopo quasi 20 chilometri di percorso sfocia nel golfo di Orosei, in corrispondenza della nota spiaggia di Cala Luna.
Questo grande complesso carsico si è originato in un altopiano che ha una potenza di varie centinaia di metri, costituito da calcari e dolomie del giurese, insediatisi sopra un basamento granitico paleozoico che a tratti riaffiora nel fondovalle sotto forma di grandi massi. In questo altopiano è presente una grossa faglia che costeggia la parete orientale della codula, appena sotto la catena montuosa che parte da monte Oseli: è visibile sulla destra orografica, e ha l'aspetto di un gigantesco gradino tra la catena montuosa e il fondovalle.
Le acque provenienti dall'altopiano a oriente della codula si sono insinuate in questa faglia, nella roccia carbonatica che degrada verso il torrente, dando origine ad un grande sistema carsico che le numerose esplorazioni speleologiche, particolarmente numerose negli anni ottanta e novanta, non sono ancora riuscite a ricostruire. Sicuramente gli speleologi hanno una buona conoscenza dell'assetto idrogeologico generale del complesso, ma tutti i tentativi di accedere al collettore sotterraneo che porta l'acqua di Su Palu e Suspiria fino alla risorgenza sottomarina di Cala Luna sono finora falliti.
Le grotte di Su Palu e Suspiria hanno due ingressi separati, trovati rispettivamente nel 1979 e nel 1980, e in breve entrambe hanno raggiunto una lunghezza considerevole. Alla fine degli anni ottanta una fortunata e difficile esplorazione speleosubacquea ha forzato un sifone sommerso che ha messo le due grotte in comunicazione, generando un unico grande complesso carsico, al cui sistema partecipa anche la grotta di Carcaragone, inghiottitoio posto più a valle nella zona di Pedra Molina.
Il racconto che segue si riferisce ad una spedizione, organizzata nel 1993 dalla Federazione Speleologica Sarda, che aveva lo scopo di esplorare un altro sifone (Sa Ciedda), nella grotta di Su Palu, che si pensava potesse dare il sospirato accesso al collettore sotterraneo della codula Ilune. Oltre il sifone gli speleosub hanno intercettato delle grandi gallerie asciutte, la cui esplorazione non è ancora terminata.

N.B. : la planimetria qui riportata si riferisce al livello inferiore della grotta, primo dei tre livelli sovrapposti su cui si sviluppa la grotta.

 

Durante l'inverno del '93 Leo, amico speleosubacqueo di Dorgali, aveva contattato il nostro gruppo, da poco costituito in associazione e affiliato alla Federazione Speleologica Sarda, per chiedere appoggio ad una importante spedizione esplorativa alla grotta di Su Palu: l'obiettivo era di superare il sifone sommerso di Sa Ciedda e verificare eventuali prosecuzioni in quel grande sistema. 5 anni prima il veronese Guido Rossi ed altri avevano superato un altro sifone ed avevano ottenuto la congiunzione tra le due grandi grotte di Su Palu e Suspiria, in Codula di Luna. Gli speleologi sardi cercavano, attraverso Sa Ciedda, di entrare nel più volte ipotizzato collettore sotterraneo, percorso dalle acque di Su Palu e Suspiria, per arrivare al mare di Cala Luna.
Leo ci aveva parlato a lungo di questa esplorazione, descrivendoci la bellezza della grotta, che definiva "l'università della speleologia": ci parlava di grandi gallerie, di torrenti sotterranei, di grandi laghi, di traversi, di discese e risalite in corda. Il nostro gruppo aveva già una discreta esperienza di grandi complessi carsici, ma avevamo sempre preferito la più vicina Su Bentu, a Oliena, e l'idea di conoscere la mitica Su Palu ci attirava moltissimo. Per cui non ci eravamo certo fatti pregare.
Eravamo arrivati in quattro da Nuoro, nel piazzale di Teletottes, un sabato mattina di Marzo: il posto era già ricoperto dai bivacchi di chi era arrivato il giorno prima. Molti uscivano sbadigliando dalle tende, molti altri erano già in piedi e si occupavano della caffettiera o di preparare i tubolari per entrare in grotta. In totale una trentina di speleo, provenienti da tutta la Sardegna. Leo, da principale organizzatore, preparava meticolosamente bombole, erogatori, mute e una valanga di materiali pesanti che noi, gli eletti (?!), avremmo dovuto portare fino al sifone, a una decina di ore dall'ingresso. Ultimati i preparativi, dopo avere fatto il punto sull'aspetto organizzativo della spedizione, il gruppone variopinto e rumoroso si era incamminato verso l'ingresso della grotta, distante appena una decina di minuti dal campo.
Per entrare dovevamo guadare la codula Ilune, che in quei giorni aveva una buona portata d'acqua: qualcuno era scivolato tra i grandi macigni viscidi, anticipando il bagno al sifone sommerso. All'imboccatura si era formata la coda: i primi avevano predisposto 20 metri di scaletta metallica che ci doveva aiutare a calare il materiale per il primo pozzo, profondo quasi 20 metri. Leo strillava che le-bombole-da-sub-sono-riempite-a-tot-atmosfere-se-le-urtate-diventano-bombe-e-ci-ammazziamo-tutti. Inutile dire che i primi di turno al trasporto bombole, tra cui il sottoscritto, avevano disceso la scaletta con un po' di apprensione, il che, aggiunto al peso considerevole dei materiali, aveva reso il primo impatto con la grotta abbastanza faticoso.
Dopo un po' tutto il materiale, personale e di gruppo, era in fondo al primo pozzo. Il serpentone umano si è diretto verso il cunicolo allagato, distante circa 400 metri.

Questo è un passaggio che nei racconti degli speleo era ormai leggendario: un cunicolo di pochi metri perfidi, per metà della sua modesta altezza invaso dall'acqua. Bisogna strisciare nell'acqua freddissima (vedi foto) il più velocemente possibile, con il fiato che viene a mancare per lo sbalzo termico. Qualcuno passa in mutande, qualcuno con la tuta di PVC, ma il risultato è lo stesso. Dopo il perfido cunicolo si prosegue, scalzi e fradici, per altri 50 metri in un budello stretto e disagevole, in mezzo ad una corrente bestiale, fino alla "sala rossa", dove c'è abbastanza spazio per asciugarsi e rivestirsi.
Terminate le operazioni di asciugatura, dalla sala rossa eravamo entrati in una grande galleria, Alta Loma. Avevamo raggiunto la Confluenza ed avevamo voltato a destra intercettando un'altra grande galleria con il fondo occupato dal torrente White Nile. La progressione era a tratti semplice e all'asciutto, a tratti con i piedi a mollo, e di tanto in tanto si abbandonava il fondo della galleria per affrontare delle risalite sulle pareti, talvolta impegnative ed acrobatiche.

Gli ambienti erano straordinariamente belli, era un susseguirsi di meraviglie sotterranee, di grandi ambienti e di passaggi alti sull'acqua. Ad un certo punto avevamo cominciato ad avvertire un lontano rombo di acqua corrente, rombo che si faceva sempre più forte e vicino: stavamo arrivando ad un altro passaggio mitico, di cui avevamo spesso sentito raccontare: la cascata sul White Nile.
Qui, un tassello a espansione (spit) fornisce l'attacco per una discesa di una decina di metri fino ad un terrazzino. Di qui comincia un traverso orizzontale di una ventina di metri, in opposizione tra le due pareti della forra, con la cascata che romba sotto di noi. Solo che per la mia statura non eccelsa la parete opposta mi sembrava dannatamente lontana. Avevo afferrato la corda di sicurezza per moschettonarmi e mi ero accorto che era in condizioni talmente brutte che non avrebbe trattenuto un'eventuale caduta. Ma chi aspettava, in fila, mi guardava e si aspettava che andassi avanti, per cui mi ero sforzato di non pensarci troppo e avevo allungato un piede che, dopo un allungo al limite, era arrivato a toccare la parete opposta. Era fatta, mi ero messo in opposizione e avevo proseguito, le due pareti si avvicinano progressivamente e il traverso non era risultato particolarmente difficile. Alla fine di questo, un'altra discesa di una decina di metri portava ad un atterraggio nel bel mezzo del White Nile, con l'acqua fino al ginocchio e nessuna possibilità di salire sulla parete, completamente liscia, della galleria. Da qui in poi avremo sguazzato per un bel tratto con i piedi a mollo.
Avevamo proceduto seguendo il White Nile in discesa, fino a raggiungere un grande lago dove si trova il sifone che collega questa grotta con quella di Suspiria, avevamo svoltato sotto un passaggio a destra ed eravamo arrivati ad El Alamein, un ciclopico cavernone con il pavimento piatto e sabbioso. Il gruppo si era fermato per riprendere fiato. Tutti ne avevamo approfittato per riposare, la scena era assolutamente curiosa e surreale: decine di speleo tentavano di dormire avvolti nei teli termici di alluminio, sembrava di guardare un grande vassoio di cioccolatini.

Proprio quando il torpore stava cominciando ad arrivare, una voce sgradevole ci aveva avvertito che la pacchia era finita e che bisognava proseguire verso il sifone di Sa Ciedda. Ci eravamo alzati di malavoglia per ripartire. Eravamo all'inizio della galleria di Lillipoot, in ambienti sempre più suggestivi e grandiosi. Mentre ero in coda per una discesa su corda di pochi metri, avevo guardato lateralmente e avevo visto una fila indiana di lumicini, lontanissimi: realizzo che sono le luci ad acetilene di un gruppo più avanti, e non posso fare a meno di sorprendermi per la vastità di questi ambienti, veramente inimmaginabile!
In breve siamo arrivati ad una sala coperta di dune di sabbia: eravamo finalmente a Sa Ciedda, dopo 12 ore di cammino nelle viscere della terra. La erano cominciati i preparativi per l'immersione dei sub: nella bellissima saletta successiva si preparava l'armo che permetterà l'ingresso nel sifone, ultimato il quale Leo e Roberto si immergeranno. Gli "eletti" portatori della squadra appoggio avrebbero dovuto aspettare il loro ritorno per qualche ora, e si erano preparati a dormire, o meglio a provarci. La maggior parte eravamo così stanchi e fradici che non riuscivamo a combattere il freddo, un freddo tenace che resisteva alle quantità industriali di the bollente ingurgitato. Si tentava di dormire, e ad un certo punto mi ero accorto che stavo respirando all'interno del sacco a pelo per tentare di scaldarmi, allora avevo messo la bombola ad acetilene, che era ben calda, all'interno, e la situazione era migliorata un po'. Ma quando stavo per prendere sonno, avevo sentito la voce giuliva di Jo, il belga-cagliaritano, che annunciava trionfante il rientro degli speleosub. Per un attimo avevo avuto la tentazione di centrarlo in mezzo agli occhi con lo scarpone che avevo li vicino, ma poi mi ero rassegnato e mi ero preparato a riindossare la tuta bagnata e fangosa che mi stava accanto, e gli scarponi altrettanto bagnati e fangosi che avevo rinunciato a tirare a Jo.
I sub erano giustamente più stanchi di noi e non concedevano interviste, ci avevano invitato a prendere i materiali e a uscire. Dormiranno un po' e poi usciranno anche loro. Ci viene un pensiero maligno: sarà veramente così, oppure non ci raccontano niente perchè temono che, appena  saputo ciò che volevamo sapere, usciamo dalla grotta lasciando lì tutto il pesantissimo materiale per le immersioni? Nonostante i dubbi, avevamo deciso di prendere le bombole e di portarle all'esterno, se poi i racconti non ci avessero soddisfatto, c'era sempre tempo per fargliela pagare, a quegli aguzzini.
Il ritorno, a piccoli gruppetti, era stato relativamente veloce. Avevamo fretta di uscire all'aperto, rinunciamo a tutte le soste e in otto ore anzichè le dodici dell'andata siamo al passaggio allagato. Altro bagno con recupero zaini e tubolari, e, dall'altra parte del cunicolo, avevamo incontrato altri soci di Nuoro, che ci erano venuti incontro. Se non altro avremmo fatto gli ultimi metri fino all'uscita con meno peso sulle spalle.
In breve eravamo al pozzo iniziale, eravamo risaliti e quindi usciti all'aperto. 

Avevamo sgranato gli occhi, dopo 26 ore dentro la grotta ci eravamo quasi dimenticati della luce del sole. Eravamo tutti stanchi, fradici e affamati, ma Leo aveva ragione: Su Palu è di quelle grotte che non si dimenticano.