Quella parola ancora da dire. Nel rifugio orgolese di Francesco Ciusa, di Manuela Flore.

07.06.2013 22:23

              

 

di Manuela Flore

“Se dovessi scegliere in assoluto un simbolo della mia terra non lo sceglierei né in un romanzo della Deledda né in un canto del poeta Bustianu, ma in questo adolescente che, per me, è il David della Barbagia” (Remo Branca).

Andate via da Nuoro per un po’. Lontano, quanto basta per altri profumi, altri colori ancora. Orgosolo. Un’altra pace, silenzio, quello che cercate, qualsiasi cosa sia.

Quello che cercava anche Francesco Ciusa, arrivato a Orgosolo per trascorrere pezzi degli anni quaranta, quelli dei bombardamenti. Lasciò Cagliari, le bombe e i frantumi del suo studio solo per qualche tempo.

E io, incuriosita, vado alla ricerca dei luoghi in cui ha vissuto i suoi anni orgolesi per accorgermi che il tempo ha conservato integri i passi dello scultore nuorese. Le sue orme ancora fresche. Ho domandato al mio amico poeta orgolese Giovanni Pira se conoscesse qualcuno che potesse darmi le informazioni che cercavo.

Qualche mattina dopo è iniziato un viaggio inaspettato. Arrivo in via De Gasperi esattamente dove avevo parcheggiato la macchina la prima volta che mi recai per lo stesso intento. Arrivo in via De Gasperi davanti ad una grande palazzina dove Ciusa abitò o meglio, si nascose, a detta di Alberto Calaresu, l’attuale proprietario. Lo scultore visse nella mansarda, illuminata da quattro piccole finestre. Alberto mi saluta con un aforisma a doppio nodo: “Se la cultura non si tramanda non è cultura”. “Quando in paese arrivava la polizia fascista, pare si nascondesse nel forno del pane per non essere trovato”, mi racconta poi Alberto. Mi fa entrare nella cantina che l’artista aveva adibito a laboratorio. “È prima volta che apro la cantina a qualcuno interessato a Francesco Ciusa”. Davanti ai miei occhi, ancora integro, il piano da lavoro. Sembra ancora di sentire il profumo del gesso! Questa piccola stanza e i suoi colori hanno un fascino che sfugge alle parole. Immagino Francesco Ciusa muoversi all’interno della stanza tra l’azzurro delle pareti consumato dall’umidità e le cianfrusaglie che ciondolano sui muri. Cadono calcinacci che colorano d’azzurro il pavimento. Chiacchericci rumorosi di tempi antichi. Scatoloni rossi, tripudio di colori. “Pare cercasse dei modelli. Un giorno chiese a un amica di famiglia se conoscesse un adolescente che potesse posare per lui. Portarono il figlio di un amico, ma lo rifiutò gentilmente con una scusa. Quando tutti lasciarono la stanza, spiegò: “Non andava bene, aveva gli occhi stupidi”.

Alberto mi conduce sulle vie del paese, e dopo qualche salita arriviamo dalle sorelle Antonia e Ottavia Patteri, due anziane donne che mi accolgono nel loro salotto all’interno del quale regna sovrana la gigantografia della scultura di Ciusa “Il fromboliere”. Non a caso, poiché il modello fu proprio il fratello delle due donne, Venerando, morto il 27 dicembre 1987 a 62 anni. Nel 1937, Ciusa fu l’insegnante privato dell’allora dodicenne Venerando, con l’obiettivo di prepararlo per quello che sarà in quegli anni l’esame di ammissione alle scuole superiori. Affascinato dallo sguardo fiero, dai lineamenti forti e decisi, Ciusa plasmerà quel volto che cercava, per quello che sarà il suo ultimo capolavoro. Anni dopo Venerando diventerà a sua volta un insegnante nelle scuole di Bosa. “Si faceva pagare bene; abbiamo ancora un quaderno di appunti dove scrivevamo tutte le spese che affrontavamo mese per mese. Tra le altre, spiccano quelle dovute alle lezioni che nostro fratello seguiva. Quando vennero a chiederci la statua del Fromboliere, che si trovava ancora in casa di Alberto Calaresu, mandammo gli interessati direttamente a Bosa. Venerando ormai viveva e lavorava lì e acconsentì che la statua venisse portata via per esporla a una mostra. Speravamo venisse riportata qui, invece non è mai tornata a casa. Siamo comunque contente che la gente abbia l’opportunità di ammirare l’opera e sarebbe bello se potessero mettere una targa con il nome di nostro fratello”. Continuiamo a chiacchierare mentre Antonia spolvera con la manica del maglione la foto di suo fratello per mostrarmela in tutta la sua dolcezza. Uscendo di casa mi trovo di fronte a un murale dedicato proprio a Ciusa. Accanto al ritratto dell’artista, il Fromboliere osserva i passanti uno per uno.

Continuiamo a percorrere la stessa via e poco più avanti la “Madre dell’Ucciso” affrescata accanto a un portone veglia sul quartiere. Un’altra famiglia ci accoglie amorevolmente, saluta Giovanni e insieme ci accomodiamo. Davanti a me c’è Francesco Spiggia, un bell’uomo dai lineamenti delicati e la pelle vellutata. Inizia a raccontare davanti al caffè: “Ricordo bene Tziu Franziskinu, era un uomo alto, bello, con baffi e bastone. Pare stesse cercando qualcuno che posasse per lui e una mattina dopo la scuola mi portarono nella cantina dei Calaresu. Mi fece sdraiare sul piano di pietra che tuttora si trova all’interno di quello che fu il suo laboratorio. Arrotolò una stuoia di pelle nera perché mi facesse da guanciale. Stavo così bene che dopo alcuni istanti mi addormentai veramente. Ero un pastorello addormentato”, mi racconta col sorriso. “Mesi dopo passeggiando per il paese vidi esposte dal giornalaio delle cartoline familiari. C’ero proprio io, dormivo di gusto su un guanciale. Riconobbi subito l’immagine. Comprai la cartolina ma ormai non sappiamo più dove sia finita. Tempo dopo posai nuovamente per lui, di fronte a casa di Tziu Leonardeddu Corraine. Avevo sul collo un mantello d’orbace, seduto su uno sgabello di pietra con un piccolo maialetto in braccio che dormiva. Lui iniziò a disegnarmi sulla carta, immerso e concentrato. Chissà dov’è finito quel disegno”. Continuiamo il nostro viaggio. Ci fermiamo verso l’uscita del paese per incontrare Giovanni Succu, parente del Dottor Monni, il medico di Orgosolo negli anni Trenta e grande amico dello scultore, per il quale posò a quarant’anni. Il ritratto in gesso del dottore è custodito dalla famiglia: davanti ai miei occhi, ancora quell’abilità artistica notevole. E poiché la famiglia Succu non possiede fotografie del medico, mi dirigo in cimitero per vedere se, pura curiosità, le sembianze del dottore sull’immagine commemorativa corrispondano a quelle della scultura custodita dai Succu.

Mentre faccio ritorno a Nuoro, mi fermo lungo la strada. Immobile, rielaboro memorie, incontri, scoperte. Guardo intensamente le vallate che si scorgono dagli stralci nuoresi. Francesco Ciusa scriveva spesso delle sue colline, dei suoi monti, gli stessi che i suoi occhi giovani veneravano da quel vecchio pagliaio nuorese che nei primi del Novecento fu il suo studio, nell’attuale via Lamarmora. Viscerali spasmi plasmano creta morbida e fredda, mani ruvide creano sapientemente parole e tradizioni, la storia di Nuoro e della Barbagia è dentro quell’argilla. Colline che abbracciano un artista e sua madre. L’ucciso, figlio della madre, dell’ucciso. Allora, camminate più spesso a Santu Predu, non fermatevi in via Grazia Deledda, proseguite per l chiesa di San Carlo, arrivate a casa Ciusa. Cantate versi di Bustianu, citate aforismi deleddiani ma inneggiate anche a colui che fu Francesco Ciusa. La sua arte urlava tra le mura di una cantina nascosta, viveva nella soffitta di una casa tra le vie del paese. Andò a Orgosolo per manifestare “quella parola che ancora dovrò dire”. Quella parola è ancora lì che attende di essere pronunciata.