Domina Lunae, di Francesco Murgia

06.03.2016 22:01

 

DOMINA LUNAE, di Francesco Murgia

 

Prologo

Sardegna Centrale, valle carsica di Lanaittu, primavera dell’anno 1961.

Quella domenica di Maggio gli uomini del Gruppo Grotte Nuorese avevano organizzato una ricerca esterna a ridosso del versante occidentale di Monte Gutturjos, il monte dei grifoni. La giornata, fresca e luminosa, si prospettava nelle condizioni ideali per dar efficacia all'esplorazione del sistema carsico epigeo di quella porzione di Supramonte.

Nel percorrere il sentiero che adduce all’ampio canyon di Doloverre non passò inosservata, agli occhi degli speleologi, l'ombra scura di ciò che pareva un piccolo anfratto, parzialmente occultato dalla macchia mediterranea, aperto tra le fessurazioni della grigia parete calcarea. Lasciati gli zaini alla base della parete, gli uomini risalirono il breve ma ripido pendio che li separava dall'ingresso della cavità, portandosi appresso solo i caschi con l'illuminazione ad acetilene ed una corda. Qualora lo sviluppo della grotta avesse richiesto l'utilizzo d’altri materiali si sarebbero potuti recuperare agevolmente gli zaini contenenti le attrezzature necessarie.

Addentratisi nella grotta, la primissima impressione degli esploratori fu quella di trovarsi di fronte all’accesso di una cavità carsica di rilevante importanza che, nelle attese, già s’immaginava connessa al sottostante sistema idrologico della sorgente di San Pantaleo; ma questa speranza si rivelò ben presto illusoria. Esplorato tutto il perimetro della grotta, infatti, si poté stimare uno sviluppo ipogeo complessivo di poche decine di metri, lungo il quale non appariva alcun segno d’ulteriore prosecuzione. Quella cavità, agli occhi degli speleologi, fu quindi declassata, al rango di banale anfratto, per nulla dissimile da tanti altri già faticosamente e vanamente raggiunti. Come sempre accade in questi casi, del resto assai frequenti nelle esplorazioni speleologiche, il disappunto per la mancata scoperta si rese subito manifesto nei commenti contrariati dei presenti. Ma tra i partecipanti ad un'escursione, per buona sorte, c'è sempre chi, mai domo o particolarmente ostinato, ritiene di non dover lasciare niente d'intentato e si attarda nel ricercare qualsiasi traccia degna d'interesse o l'indizio utile a conferire una qualsiasi importanza all'antro scoperto.

Fu così che lo sguardo dello speleologo più caparbio, probabilmente lo stesso che per primo, da sotto, aveva scorto l’anfratto, si soffermò su alcune pietre disposte con apparente simmetria al centro della sala ipogea. Quei sassi, ad un'osservazione più attenta e ravvicinata, altri non erano i resti di un vecchio focolare. Ma questa scoperta, di per sé, non era certo tale da cambiare le sorti di un’esplorazione che pareva già votata all’insuccesso: quel focolare, infatti, poteva essere stato preparato, in tempi recenti, da un pastore sorpreso dal temporale, anche se la posizione della grotta, raggiungibile con qualche difficoltà, non era tale da avvalorare questa ipotesi.

Gli speleologi, in ogni caso, non si sentirono per nulla rinfrancati da quel rinvenimento ed alcuni di loro già si accingevano ad abbandonare la cavità per proseguire oltre nella ricerca esterna. Il caso volle che lo sguardo di uno degli esploratori, intento ad esaminare i carboni dell'antico focolare, si soffermasse anche su alcune sagome, poste a ridosso di un grosso masso, che risaltavano sul terriccio del pavimento. Resosi conto di cosa realmente si trattasse, lo speleologo esclamò: "Ragazzi avvicinatevi! … qui ci sono ossa umane!". D'improvviso la curiosità riportò l'attenzione dei presenti verso l'interno della cavità e le illuminazioni furono concentrate nel punto del ritrovamento.

Bruno, il più anziano ed esperto, smosse con cura ed attenzione la polvere bruna accumulatasi attorno a quelle ossa, facendo risaltare, alla luce ocra e sfarfallante delle acetilene, le forme di uno scheletro umano. A mano a mano che la figura in rilievo diveniva evidente, la grotta si rianimò dell'entusiasmo iniziale, commisto, stavolta, ad una sorta di partecipazione silenziosa, quasi sacrale per il non comune rinvenimento. Al termine di quella prima azione di ripulitura, le spoglie si presentarono composte con gli arti inferiori accostati al tronco e agli arti superiori, in posizione fetale come se, con quella postura, gli antichi inumatori avessero voluto simboleggiare una sorta di ritorno, un ricongiungimento al ventre della Dea Madre e alla Terra, al cui culto erano dedite, dal neolitico, le antiche popolazioni sarde.

Attorno allo scheletro furono riportate alla luce alcune ciotole, una piccola macina, punteruoli d'osso ed altri oggetti tipici di un antico corredo funerario. La presenza di quei manufatti avvalorò ciò che i presenti, nei commenti sommessi, già si attendevano: la grotta era stata utilizzata, certamente in tempi remoti, come sepoltura. Presa piena consapevolezza dell'importanza del ritrovamento si decise, considerata l'inadeguatezza delle attrezzature in quel momento a disposizione, che nient'altro fosse smosso. Il gruppo di speleologi, quindi, si attivò per eseguire un rilevamento topografico completo e minuzioso della cavità, in particolare dell’area attorno alla sepoltura, e per realizzare le fotografie necessarie all’esatta ricostruzione, una volta effettuato il recupero, del sito funerario.

  La settimana successiva a quel ritrovamento, gli uomini del Gruppo Grotte s’impegnarono nell'allestimento dei materiali necessari a portare a buon fine l'operazione di recupero. Fu allestita anche una teca in vetro, ove riporre quelle ossa rispettandone l'esatta posizione nella sepoltura.

Trascorsero i giorni dei preparativi e la domenica successiva, di buon mattino, gli speleologi si addentrarono nuovamente nella grotta, per portare a termine quanto iniziato la settimana precedente. La raccolta ed il trasferimento dei reperti dalla cavità si prolungò per parecchie ore. Al termine dell'operazione, quando nella valle di Lanaittu iniziava già a far sera, la soddisfazione si mostrava evidente negli sguardi degli uomini che percorrevano la via del ritorno. Quel sentimento trovava origine in una consapevolezza comune, da tutti sottaciuta per prudenza e discrezione, quella di aver preso parte ad un evento d'importante, ad una scoperta archeologica dei cui contenuti percepivano solo velati ed oscuri contorni. Per questo motivo nessuno di quegli uomini manifestava l’emozione dei cacciatori di cinghiali, che ritornano al paese fregiandosi con le prede esposte e nemmeno quell’impeto dell’anima, quell’euforia, assaporata ed espressa tante volte all’uscita dalla grotta di Su Bentu, dopo giorni di buio, fatica e ardite esplorazioni. Quella sera la soddisfazione nell’animo di quegli uomini assumeva un tono nuovo, sconosciuto e solenne, intensamente partecipato e carico di una sacralità condivisa ma indecifrata.

In prossimità della strada sterrata che conduce al canyon di Doloverre, i partecipanti alla spedizione erano attesi presso le auto dagli amici provenienti da Nuoro che, ansiosi d’avere notizie di prima mano sull'esito del recupero, erano giunti nella valle già dal primo pomeriggio. Il calore del fuoco acceso e quello di un buon bicchiere di vino nero favorirono la fluidità del racconto e l'intrecciarsi dei discorsi. Quella notte anche la valle di Lanaittu, avvolta in un intenso effluvio di cisto e rosmarino, sembrava voler prendere parte alle emozioni degli speleologi mostrandosi, alla luce argentea della luna piena, in tutta la sua arcana bellezza. La luna, la valle e quegli uomini sembrava partecipassero, insieme, ad una sorta di misterioso rito di ricongiungimento, ad un ritorno forse già stabilito da chissà quale ordinatore.

  Durante le settimane seguenti fu effettuata una prima datazione dei reperti, confrontando gli impasti di fabbricazione delle ciotole rinvenute nella sepoltura con quelli d’altre ceramiche simili già recuperate, datate e catalogate dal sodalizio. Il raffronto consentì di attribuire a quelle testimonianze un'età approssimativa di circa 4.000 anni.

Ad un primo esame dei resti umani si poté stabilire che erano appartenuti ad un individuo di sesso femminile, determinazione questa che permise a Bruno Piredda, allora presidente del Gruppo Grotte Nuorese, di attribuire un nome particolare sia alla donna sia alla grotta nella quale fu inumata. In considerazione dell’antichità di quei resti e non ritenendo sufficiente conferirle il vezzeggiativo di "Iaia" o "Bisaia", che in dialetto barbaricino hanno rispettivamente il significato di nonna e bisnonna, quella donna fu ribattezzata con il nome di tradizione latina "Sisaia", da “sexies avia”, con il quale Bruno volle rimarcare, appunto, la vetustà di quella progenitrice.

  Le analisi approfondite sui reperti ossei consentirono di effettuare nuove e più accurate osservazioni: l'attenzione si concentrò, in particolare, sui segni conseguenti ad alcune fratture, perfettamente rinsaldate, rilevabili sul braccio sinistro ma soprattutto su una lesione, di forma circolare, localizzata nell'osso parietale destro del cranio. Quest'ultimo particolare richiamò subito alla mente degli osservatori le pratiche di trapanazione cranica condotte da alcune antiche popolazioni vissute nell'area mediterranea, eseguite per scopi terapeutici o finalizzate all'esecuzione di pratiche magiche. In considerazione di questi misteriosi sviluppi fu deciso di prendere contatto con il Prof. Franco Germanà, antropologo, medico legale e docente universitario, affinché effettuasse uno studio specifico sui reperti ossei della donna di "Sisaia". Lo studioso, insieme alla Prof. Maria Luisa Ferrarese Ceruti, chiarì le ipotesi sino allora formulate: i resti umani erano appartenuti ad un individuo di sesso femminile, vissuto oltre 3500 anni fa, il quale subì un'operazione di trapanazione cranica, condotta con mezzi arcaici e seguita dalla reinserzione della rondella ossea estratta nella sede originaria. La cicatrice formatasi intorno al frammento di cranio era lì a testimoniare che la donna sopravvisse a quell'antica e misteriosa operazione chirurgica. Le fratture rinsaldate osservabili nell'arto superiore sinistro, invece, dovevano considerarsi come conseguenti a traumi "da difesa" subiti in età giovanile, così definiti perché tipiche nei soggetti infortunatisi in cadute accidentali o negli individui sottoposti a percosse per mezzo di corpi contundenti.

Gli studi successivi condotti sul sito sepolcrale testimoniarono che alla donna di “Sisaia”, in quella grotta quasi inaccessibile e rilevata sulla valle di Lanaittu, i contemporanei riservarono onori assolutamente non comuni per la Cultura di Bonnannaro alla quale appartenevano, quelli di una sepoltura singola, adornata di un corredo funerario unico.

 

Il dono

Il villaggio s’andava risvegliando, lentamente, come se s’aspettasse un autorevole cenno per rompere con risolutezza la quiete dell'aurora. In quell'attesa, i più impazienti tra gli abitanti imbastivano timidi approcci alla vita di tutti i giorni, con leggeri colpi d'ascia o il trascinar di fascine, come a voler esortare gli altri all’avvio delle incombenze quotidiane. Le braci dei focolari, ormai morenti, spandevano nell’aria, sopra le capanne, le ultime leggere colonne di fumo, ormai evidenti al chiarore dell’alba. Quelle lievi volute andavano a fondersi, ben al di sopra dei lecci più alti, ai fumi stagnanti dei bivacchi notturni che plasmavano la densa caligine sovrastante la rocca abitata, come ad indicarne, spavaldamente, la posizione alle genti vicine.

Ben diverso si presentava il paesaggio quando i malvagi venuti da lontano riuscivano a violare l’ingresso alla valle, tra i grandi ammassi di rocce nere che intralciano il fiume e fanno cantare le acque scorrenti. In quelle occasioni, quando scontri e grida di guerra imponevano per lungo tempo il silenzio al canto degli uccelli, nessuno avrebbe osato offrire alcun vantaggio ai rivali. I rari fuochi accesi e il fumo, in quei momenti, avrebbero indicato, invece, la posizione del corpo di un nemico il cui spirito, la vampata era intenta ad annientare.

La Sacerdotessa della Luna, accovacciata accanto al focolare ormai senza fiamma, contemplava, assorta, le ardenti braci di lentischio che s’andavano consumando in livida e spenta cenere. Uno sconvolgimento profondo dell’anima, lentamente, cominciava a rimpossessarsi dei suoi giorni, come ormai era abituata a sentire quando l’astro argenteo cominciava ad imporsi, sempre più grande e solenne, nel cielo sopra la valle. Ed aveva imparato a riconoscere quella sensazione, ad aspettarla, a servirsene nei riti che era chiamata a presiedere.

A lei, figlia del re e sacerdotessa consacrata alla Grande Madre, nata per interpretare i segni della Terra e dell’Acqua ai suoi fratelli, era attribuito il privilegio di comunicare con i defunti. Questo privilegio era considerato come un dono nel sentire delle genti ma era stata la più terribile delle sventure nell’esistenza della donna. E ciò che si manifestava, ora, come un turbamento dell’anima, era solo il preludio allo stato di dolorosa incoscienza nel quale cadeva al culmine dei riti incubatori, quando tutti credevano che le maschere dei morti apparissero al suo cospetto, orride e terribili, ma sempre propense a suggerirle i preziosi auspici.

Questa sventura, il dono, non l’aveva ricevuto insieme alla vita. La sacerdotessa credeva che un potente spirito fosse penetrato in lei quando il chirurgo le aveva violato la testa con i suoi taglienti arnesi, per curare la ferita apertasi in seguito ad una rovinosa caduta. Quella traversia era rimasta indelebile nei suoi ricordi e nessuno spirito intruso, n’era convinta, avrebbe potuto cancellare l’angoscia di quei giorni. Le era rimasto nitido il ricordo di quel pendio ove, ancora fanciulla, si era recata con l’anziana sacerdotessa a raccogliere le foglie di carmelio necessarie per preparare l’unguento che chiude le ferite. E ben chiaro era il ricordo della caduta in quel profondo crepaccio, e del dolore al braccio spezzato, e del sangue caldo che l'era sgorgato dalle lacerazioni sulla pelle.

Ripensando a tutto quel tormento, riemersero alla memoria i riguardi che, in seguito, le erano stati riservati. A lei, figlia del re e destinata ad assumere il prezioso incarico di decifrare i segni della natura, non erano certo mancate le cure delle mani più esperte che si prodigarono, con bendaggi, fasciature e con l’applicazione di prodigiose erbe curative, a risaldare il braccio spezzato ed a cicatrizzare le ferite.

Insieme al ricordo di quelle dolci attenzioni riaffiorava la memoria, assai più sfumata, dello strano torpore che, in quei giorni e sempre più lungamente, l’aveva assalita ed accompagnata dentro un sonno lieve e maligno che le si adagiava addosso come uno spesso velo. Da quel torpore sorgevano, come spettri che s’affacciano da una densa nebbia, le immagini delle donne intente in cantilenate invocazioni e dei saggi sciamani a consulto, dallo sguardo duro, che mormoravano antiche litanie accanto al suo giaciglio. Le pareva di distinguere, impressa nei volti che attraversavano quella caligine, una sorta di condivisa inquietudine, una compartecipazione mesta e solenne che ordiva la trama di un filo sottile, l’unico ormai rimasto a vincolarla alla vita.

Di quei momenti rammentava anche le mani grandi di un uomo chino sul suo viso, e il sapore aspro di una bevanda che, pur sorretta dalle donne, a stento riuscì a sorseggiare e, assai più sfumato, il diluirsi infinito di quell’aspro gusto in un oblio, nero e profondo.

 

Lo Sciamano

Non appena la fanciulla fu sospinta in quell’oblio, il saggio cominciò a disporre i suoi strumenti nella ciottolina, che le poggiò a fianco alla testa. L’uomo, confortato dalla presenza di chi lo circondava, pronto ad assisterlo con il consiglio e l’esperienza, non dimostrava alcuna fretta né inquietudine.

Non era certo la prima volta che praticava quel tipo di operazione ed era abituato ad applicare l’arte del curare sui giovani guerrieri, feriti nel corso dei combattimenti con le altre tribù e negli agguati portati nel bosco dai malvagi venuti da lontano. Ben conosceva le carni perforate dagli acuti e mortali frammenti d’ossidiana, silenziosi messaggeri di morte nella foresta, lavorati meticolosamente in punte di frecce, e aveva grande esperienza degli orrendi squarci prodotti dalle asce di selce tagliente e dei crani sfasciati dalle pesanti mazze brandite con furia bestiale. Ma queste erano solo le inevitabili conseguenze del rito della battaglia, nel cui impeto, i guerrieri tentavano di aprire brecce nel corpo del nemico per farvi penetrare i demoni, sempre in agguato nell’aria. Quei demoni, che s’insediavano come orridi ed invisibili parassiti nelle carni lacerate, avrebbero preso la vita degli eroi, nutrendosi, prima, delle loro sofferenze. Ed è per non dare alimento a quei demoni che i guerrieri feriti mostravano una stoica indifferenza ai tormenti che le lacerazioni, certamente, procuravano loro. Curare le piaghe era compito di quegli eletti, così come loro era il potere di alleviare il dolore con erbe prodigiose e cacciare i demoni.

La giovane vestale non era stata colpita con una clava nodosa ma dalla ferita alla testa, n’erano certi, era penetrato un demone o uno spirito che sin allora vagava, furtivo, nel fitto del bosco. Per questo era necessario intervenire aprendole la testa, per cacciare l’essenza maligna, e guarirla. E per portare a buon fine questo compito era stato scelto lui, il più potente tra quegli uomini sapienti.

La figura della fanciulla distesa su quel giaciglio di frasche gli imponeva un inconsueto riguardo. Ben sapeva che la vita che aveva in mano non era quella del forte eppur sostituibile guerriero. Stavolta, il compito era quello di scacciare i demoni intenti a succhiare la vita della donna predestinata ad assumere un ruolo unico, potente e insostituibile, negli equilibri della società. Il saggio guardò la ragazza: i suoi capelli erano stati sacrificati già da tempo, rasati con lame affilate dalle donne della tribù per far spazio agli inutili impacchi d’erbe medicinali. L’effetto dell’infuso soporifero somministratole sarebbe passato in breve tempo e neppure l’orgoglio e la forza del più coraggioso guerriero sarebbero serviti di fronte al dolore grandissimo, continuo ed acuto, causato dalla perforazione del cranio. Per questo motivo s’era reso necessario legare saldamente la giovane con strisce di cuoio, per costringere all'immobilità le membra, destinate ad essere scosse da irrefrenabili convulsioni di dolore.

Il saggio si chinò sul corpo, aggrottando le sopracciglia, e si accinse a praticare l’incisione della pelle che avrebbe scoperto l’osso. Il punto dove operare era facilmente riconoscibile per le lacerazioni provocate dalle rocce acuminate al momento della caduta. Gli assistenti le bloccarono i polsi e le gambe mentre il vecchio serrò la cinghia di cuoio che fasciava la fronte della ragazza, immobilizzandole la testa; avviò l’intervento, praticando, con una selce affilata, un lungo taglio curvo. Scostò il lembo del cuoio capelluto scollandolo dall’osso sottostante: lo spazio scoperto era così sufficientemente ampio. Per mezzo d’alcune aguzze punte di pietra ben lavorata, ruotate un numero infinito di volte, praticò dapprima un foro, poi un secondo dalla parte opposta al precedente, seguendo gli estremi di un ovale idealmente tracciato sul cranio. Realizzati quegli spiragli, il saggio incise due solchi semicircolari, unendo così i fori. Dalla ciotola, quindi, prelevò una selce a forma di falce a due punte: su uno degli estremi fece perno, poggiandolo su una piccola lastra di rame posta a protezione dell’osso nudo e, usando l’utensile come un compasso, intaccò profondamente il solco inferiore. Per quello superiore, invece, scelse una selce con il tagliente arrotondato, che manovrò, con movimenti pendolari, come una sega. L’incisione era completata. L’effetto dell'infuso d'erbe narcotiche, con il passare del tempo, cominciava a svanire: da una condizione di sopore la fanciulla passava, gradualmente, ad uno stato confusionale nel quale, sempre più viva, riemergeva la sensibilità al dolore. Iniziava, ora, a lamentarsi flebilmente.

I movimenti ripetuti avevano avuto ragione della robustezza del cranio e la scheggia d’osso, così separata, poté essere rimossa. La giovane, vanamente, tentava ora di dibattersi, unendo quell’inutile e fievole sforzo a suppliche biascicate e confuse. Il saggio non se ne curò. Scoperchiò il frammento osseo, non senza difficoltà, utilizzando una piccola leva: nella breccia aperta, gli sciamani più vicini calarono subito gli sguardi, accompagnandoli con mormorii d’antiche invocazioni che ruppero il silenzio della capanna. In quella breccia, ora, gli uomini potevano osservare, manifesta, l’opera del demone. Il saggio, sussurrando un’arcana nenia ed agitando sopra la ferita i suoi antichi amuleti, cacciò il demone da quel corpo, schizzandolo fuori insieme con un fiotto d’umore bluastro e semicoagulato, accompagnato dall’urlo della ragazza, tragico e agghiacciante. Ma non tutto era compiuto: mentre il chirurgo ripuliva con cura lo spazio dove si era depositato il liquido, il più anziano tra i presenti provvedeva a raschiare la rondella ossea prelevata, per eliminare qualsiasi residuo della presenza maligna. Il saggio, quindi, prese con attenzione il frammento osseo, lo ripose esattamente nella sua sede naturale, assicurandolo nella posizione corretta, riaccostò i lembi del cuoio capelluto e li ricucì.

La ragazza si lamentava ancora, debolmente, spossata da tanta sofferenza; aveva lottato tanto e inutilmente per cercare di liberarsi, implorando perché quelle mani, che le procuravano un dolore così acuto, si fermassero. E a lungo il suo sguardo aveva saettato di volto in volto, che scorgeva immersi in uno sfavillio di luci abbaglianti, cercandovi un cenno di difesa e la misericordia di un gesto. Ma ormai le sue forze erano consumate, e non poté altro che continuare a soffrire, silenziosamente.

Fu allora che si convocarono le donne del villaggio. Era loro l’incarico di portare a compimento il lavoro del chirurgo, quali maestre dei riti necessari a tener lontano il demone che, n’erano certe, ancora si aggirava, tra i fumi, nella capanna. Ed erano altrettanto certe che quel demone non avrebbe accettato facilmente la sconfitta e avrebbe tentato, ancora e a lungo, di riappropriarsi del corpo dal quale era stato scacciato. Per questa ragione le donne della tribù avrebbero vegliato costantemente sulla giovane vestale e l’avrebbero accudita servendosi di tutte le arti di cui erano in possesso, giorno e notte, fino a che non le fosse restituita la vitalità di bimba, o fosse morta.

Il saggio mormorò la sua ultima invocazione, la più poderosa, quella che affida alla Grande Madre la sorte ultima della sua battaglia con il demone, lasciando poi alle donne del villaggio la vita della fanciulla sofferente. Il suo dovere e quello degli sciamani convenuti era compiuto.

 

La Signora della Luna

 Lentamente, con il favore del tempo, la giovanetta riacquistò la perduta energia. Anche gli accadimenti di quella terribile esperienza contribuirono a far crescere in lei il convincimento della propria singolarità e della sua potente natura.

Aveva sconfitto il demone, non certo da sola, ma il destino alla quale era chiamata doveva aver contribuito in modo determinante alla favorevole risoluzione della contesa con l’ombra maligna. Da quella lotta era uscita vittoriosa ma profondamente innovata, e sentiva crescere in lei una forza dominante, forse quella di un secondo spirito che le s’andava insediando nell’anima, potentissimo, ma, stavolta, non avverso. Meditando su ciò che le stava accadendo, la donna si convinse che quell'entità fosse sopraggiunta al seguito degli sciamani convenuti al suo capezzale: la grande energia di quegli uomini, condensata in un solo efflusso, doveva aver evocato qualcosa di straordinariamente potente, chiamato al compito d'aiutarla a compiere il destino concessole.

 L'energia della quale era entrata in possesso si manifestava più intensa col crescere della luna sul cielo della valle. In quei momenti, la sacerdotessa andava soggetta a periodi di trance sempre più prolungati ed intensi culminanti col plenilunio, come se la forza che solleva le maree le si ripercuotesse dentro la testa, espandendo e schiacciando sulle pareti del cranio il cervello violato dalla mano dell'uomo, che rispondeva a quella pressione con un’esplosione incontrollabile d’energia. Per la Signora della Luna, così come per il mondo nel quale viveva, quell'energia altro non era che il suo stesso destino, la manifestazione della potenza divina in lei incarnata, il tramite che le permetteva di entrare in comunicazione con le anime dei defunti e con gli spiriti, affinché la sua gente avesse accesso agli auspici necessari a procedere sicuri nelle attività di tutti i giorni.

     Con il trascorrere del tempo sentiva crescere quella potenza soprannaturale e, con quella, la capacità di prevedere gli eventi della natura e degli uomini. I saggi della tribù accreditarono quegli straordinari poteri, anticipando solamente ciò che, da sempre, era sancito, concedendole gli onori e i privilegi del suo nuovo rango. I capi ed i sacerdoti di tutte le tribù parteciparono ai riti d'iniziazione, compiuti nell’antro di un’enorme cavità ipogea. Qui, alla luce tremolante delle fiaccole, tra le colonne di pietra cesellate dalla Dea Madre ed i troni di antichi dei, le furono attribuiti i simboli del comando e gli antichi amuleti degli sciamani guaritori. In seguito, anche le donne più anziane e potenti le trasmisero tutto il loro sapere sull’efficacia delle erbe medicinali e sull'arte di sanare le ferite. Le furono svelati, infine, i sacri luoghi, celati nel fitto dei boschi, e gli accessi agli antri profondi ed inaccessibili, dalle cui volte si dipartono solenni colonne ed acuti pinnacoli, da dove, in forma di fresco soffio, si svelava la presenza degli spiriti.

   La sua fama s'impose ben presto anche tra gli abitanti dei villaggi circostanti, e il nome della più potente sacerdotessa che mai avesse vissuto nella valle risuonò nelle preghiere, nei riti e nelle esortazioni agli spiriti della terra e dell'acqua. 

 

L’ultima luna

Ormai tante lune erano passate, da quei giorni, nel cielo sopra la valle. La Sacerdotessa ben sapeva che il sorgere imponente dell’astro e l'inquietudine dell’anima che la tormentavano erano il consueto preludio al viaggio verso l'esedra dei grandi megaliti. In quei luoghi, ove s'ergevano le sacre pietre infisse, la Signora della Luna officiava, solitaria, i riti incubatori preliminari ai solenni cerimoniali comunitari della luna e delle anime. E anche questa volta avrebbe avuto il colloquio con gli spiriti.

Gradualmente, come i sogni che si stemperano nella veglia del mattino, i pensieri della Sacerdotessa della Luna scivolarono via dal regno dei ricordi per essere catturati dalle luci e dalle ombre che, a poco a poco, l’avevano avvolta.

Si attardò ancora un momento in prossimità del focolare, per carpirne gli ultimi tepori. Con un piccolo fuscello dalla punta ormai annerita smosse le ultime braci, come a voler riconoscere, nel rotolare di quei tizzoni tra la cenere, un primo auspicio, un segnale dal quale trarre conforto per affrontare le orride maschere dei morti. Lentamente si sollevò e preparò la bisaccia di pelle di capro. In quella sacca dispose con cura gli amuleti, gli strumenti e le preparazioni necessarie ai riti, conservate nelle nicchie ricavate tra le cinte di pietre che sorreggevano il cono di tronchi e di fronde ormai avvizzite della capanna. Portati a compimento quei preparativi, la donna uscì per imboccare il sentiero che s'inoltrava nel bosco, seguita solo dagli sguardi, smarriti e ansiosi, di coloro che già si dedicavano alle prime attività quotidiane.

Il viaggio non si protrasse a lungo. Giunta in prossimità delle sacre pietre si sedette, poggiando il capo su un piccolo blocco di granito scolpito per cercarvi ristoro. Sopra i monti, dalla parte del mare, un flebile vento spingeva una densa e compatta coltre di nubi, il cui contorno s'andava a fondere, mano a mano che si stemperava il chiarore del tramonto, con quello delle più alte creste. Quelle nubi, al principio, celarono la luna che sorgeva dietro i monti dietro una coltre dalla sembianza di una grande mano aperta, per poi impossessarsi dell'intera volta celeste. Per tutta la notte l'astro non riuscì a forare quel manto e rischiarare la valle. Quello scenario, tanto imponente e angoscioso, si sommò al turbine d’emozioni che si affollavano nell’animo della sacerdotessa e alla sensazione di solennità che emanava il sacro luogo, quasi a voler rappresentare il preannuncio d’ineluttabili eventi.  Si fece forza e accese un piccolo fuoco di fuscelli: quella era la notte sacra e la sacerdotessa aveva il dovere di dedicarsi al rito incubatorio. Dalla sacca estrasse gli antichi amuleti, che indossò al collo, la piccola macina e le foglie di carmelio. Cominciò a sminuzzare quelle foglie con movimenti ritmati, accompagnandoli con una nenia d'invocazioni cantilenate. Miscelò la poltiglia ottenuta insieme all'acqua della sacra sorgente e lasciò a decantare il denso miscuglio verde. Passato qualche istante, che la donna impiegò ad individuare, ancora una volta invano, la luna nel cielo, bevve il contenuto della ciotola. La sacerdotessa della Luna, come mai prima le era accaduto, sentiva la sua anima schiacciata come da un macigno immenso; forse era la luna, nascosta ma pur sempre potente, la cui forza si propagava nel cervello o gli esiti dell'antica ferita al capo o solamente il segno di un destino marcato dalla sofferenza, alla quale neanche il potente spirito che l'accompagnava poteva dare sollievo.

Lentamente, si sentì condotta dentro un sonno profondo, costellato di colori cupi e bruciati. Ben presto anche i primi spettri apparvero al suo cospetto: denti, unghie e ghigni terribili si mostravano innanzi, insieme alle mani ossute che sempre le avevano indicato panorami e scene sfumate, dalle cui trame estrarre gli auspici necessari alla vita della sua gente. Stavolta, però, quelle mani consunte non indicarono i rifugi dei nemici in agguato né i segni dell’incombente alluvione, ma solo l’immagine di una piccola grotta nascosta tra la vegetazione, affacciata sulla valle in direzione del sole morente. Percepì con chiarezza quanto quella rivelazione la riguardasse. E fu questa la sua ultima, inutile profezia. Vide, ad ultimo, le tragiche maschere dei morti farsi da parte e disporsi su due fianchi, un’esplosione di luce avvolgerla e richiudersi alle sue spalle e, al fondo, un nulla infinito.                                                                                               

I primi oranti del corteo, in cammino verso il luogo sacro, la ritrovarono ancora seduta ai piedi della grande stele. Ben presto le staffette furono inviate presso tutti i villaggi, affinché annunciassero l’infausta notizia. Alle donne del villaggio fu demandato il compito di preparare quel corpo per l’accesso al regno delle anime mentre i capi, convenuti presso il luogo sacro per ascoltare i preziosi auspici della Signora della Luna, si radunarono in un mesto consesso. In quella sede, disposero che le fosse concesso l’onore di una sepoltura unica, posta in una posizione dominante sulla valle, affinché potesse, anche dal regno delle anime, vigilare sulla sua gente.

Trascorse anche il tempo dei canti e delle nenie funebri e la Signora della Luna fu accompagnata presso la sua ultima dimora: una piccola grotta nascosta tra la vegetazione, affacciata sulla valle in direzione del sole morente, come profetizzato dallo Spirito del Buio.

Francesco Murgia.