Di un angelo stanco, di Marina Moncelsi.

03.11.2015 22:14

Di un angelo stanco, di Marina Moncelsi

La primavera del 1967 fu dolce, o almeno io così la ricordo. Terza media, voglia di crescere. Decisi la mia prima feria scolastica, e scelsi il luogo. La scuola era poco lontano, ma abbastanza per non essere cassata da prof o parenti; e chi mi avrebbe cercato lì dentro, del resto?

Il tempo delle ferie organizzate era da venire, tempo due anni e avrei ballato nello spiazzo nascosto della Solitudine, tra alberi e rocce, con i 45 giri suonati dentro un mangiadischi rosso a batteria, che quando iniziava a scaricarsi anche uno shake diventava lento. In compagnia, da tutte le scuole.

Ma quella primavera dei miei tredici anni iniziavano le sfide ai divieti, e uno dei tabù familiari era il cimitero. Mi era vietato da mio padre, in una sorta di interdizione sacrale con cui pensava, forse, di poter scongiurare il passaggio definitivo dal cancello. L’anno dopo avrei conosciuto l’inutilità di quell’esorcismo.

Insomma, la mia prima vela la trascorsi a Sa ‘e Manca. Passeggiai per i vialetti perdendomi in quello che mi pareva un labirinto, rincorrendo scoperte di un mondo oltre il mondo, sconosciuto e da sempre misterioso. Dove andavano i morti? Mi avevano insegnato al catechismo che le destinazioni erano molte meno delle fermate dell’unico postalino in servizio a Nuoro, ma non mi bastava. Oltre il giorno del funerale (anche questo genitorialmente proibito) di cui sapevo vagamente che esisteva un rituale, altro non mi era dato conoscere.

L’eterno riposo lo avevo recitato solo alle elementari, sentendomi sminuita rispetto alle compagne che avevano qualcuno a cui dedicarlo. Io no, unico morto di casa era un nonno materno sconosciuto quasi anche da sua figlia, e la cui presenza in famiglia riecheggiava nel terzo nome di mio fratello.

Ma ora ero abbastanza grande per disobbedire, e in una sorta di rito di iniziazione varcai l’enorme nera cancellata. Mi sentii subito persa e per farmi compagnia presi a calpestare con studiata indifferenza le orme di un gruppetto di donne che parlavano dei morti, ricordandoli man mano che ne riconoscevano il volto in una foto sbiadita, o il nome ritrovato anche quando ne mancava qualche lettera sulle lapidi antiche. E ricostruivano storie di amori mancati, di liti in famiglia, di innominabili mali assassini.

Non so quante volte tornai, un po’ a ferie e un po’ in uscita anticipata, e sempre qualcosa imparavo. Che non bisognava ossigenarsi i capelli lo seppi davanti alla foto della bellissima morta giovane, chè al biondo artificiale veniva attribuita la malattia che l’avrebbe condotta entro quella affollata cappella. E seppi del cuore spezzato dell’altra fanciulla i cui occhi tristi accusavano il passeggero che si fermava davanti alla sua immagine, ma il vero colpevole era il padre che le aveva vietato l’amore per il quale era morta; qualcuna abbassando la voce insinuò “suicidio”, ma un prete più pietoso del genitore la portò in terra consacrata.

E conobbi la pietas dovuta a quei troppi che “versarono il sangue” nell’orrendo conflitto, ricevendone in cambio i fiori a novembre. E il bimbo che tende ancora oggi le braccia alla madre forse morta di parto (così perlomeno ritenni, che a inventare le storie iniziavo ad essere brava pure io), quel bimbo ogni volta mi stringeva il cuore e mi consolava solamente il fatto che la madre nella morte lo stringesse in un eterno abbraccio, anche se il busto in cima alla colonnina di marmo appariva senza arti.

E l’incanto dei raggi di sole sulle pieghe della lunga veste di un angelo stanco.

Poi le tombe d’interro cercavo, quelle antiche con nomi sbiaditi; e dentro un cancelletto di ferro lessi il nome del poeta nuorese, e una volta gli portai dei fiori: anemoni rossi.

Quella primavera passò in mezzo al sole e io la passai col segreto del divieto violato.

La primavera successiva fu meno clemente, e il giorno di maggio che quello scaramantico babbo varcò il grande cancello, un poco pioveva, ricordo. E smisi di andare lì dentro a cercare i perché.

E oggi che ragioni più atroci mi conducono a calpestare le pietre di ieri, rivedo ogni volta quel bimbo che tende le braccia alla madre, e gli dico: “Tranquillo! Lei c’è”.

Marina Moncelsi.