Di lettere, di note, e di bischerate varie, di Marina Moncelsi

17.09.2016 14:24

 

Circola da alcuni giorni l’ammirevole lettera di un padre agli insegnanti di suo figlio, papà che ci informa pubblicamente che "siamo stati fortunati, è una scuola molto aperta e i docenti sono persone intelligenti e disponibili al dialogo"; allora, mi domando: bisogno hai di scrivergli, non gli puoi dire queste cose a voce invece di farle sapere al mondo? Boh. La lettera è bella e furba, perché tra le righe spiega come lui sia un bravo papà, anzi bravissimo, in quanto non ha sprecato il tempo delle vacanze con suo figlio aiutandolo a fare i compiti estivi, ma ha preferito “insegnargli a vivere”. Cosa della quale sempre sia lodato.

E mi è venuta in mente la faccenda delle note ai tempi della scuola; di quella sui banchi, chè dalla cattedra non ne ho mai mandate ai genitori, conoscendo in anticipo il tono delle loro (eventuali) risposte. La mia prima nota in grembiule bianco la presi in 4^ elementare, non posso non ricordarlo. La portai a casa terrorizzata, per strada convulsamente pensando ad una fuga e rimpiangendo di non avere neanche un centesimo in tasca per salire sul primo pullman destinazione ignota, comunque molto lontana. Non avevo fatto i compiti di analisi grammaticale. Gente mia, comprendetemi: l’analisi grammaticale! Quella roba che da ogni frase (interi brani di autori logorroici e sconosciuti abbastanza) devi trarre: pronome, nome (maschile, femminile, singolare o plurale) verbo (tempo, modo, persona), articolo (determinativo o indeterminativo) e tutte quelle informazioncine che un giorno lontano mi avrebbero consentito di usare il piuttosto che nella maniera giusta. Ma la odiavo. Per estensione, sono arrivata ad odiare anche i quaderni a righe di quarta: nella mia collezione di quaderni scolastici dal 1800 in poi c’è uno solo di quelli, giusto per completezza di informazione storica.

Arrivai a casa senza aver incontrato nemmeno un gatto nero, ma con la faccia di chi ne aveva dovuti abbattere una quindicina. Mamma mi chiese subito: “Cosa hai combinato?” e questa cosa che certe mamme leggono nel pensiero non mi è mai andata giù, anche perché è una dote che non ho avuto in eredità. Ancora non avevo imparato a imitare la sua firma, arte che sfruttai lungamente negli anni post fiocco rosa, e che mi fu di grande utilità nel corso delle manifestazioni studentesche. Ma allora, chinai il capo e mostrai la nota sul foglio che l’implacabile maestra mi aveva consegnato accompagnato da uno sguardo di riprovazione e dall’ordine di restituirlo firmato. Mamma in quel momento mise alla prova le sue coronarie che ancora oggi reggono bene, e io misi alla prova le mie corde vocali dalla sussa che mi diede. “E quando torna tuo padre ti dà il resto!” era la minaccia che mi stendeva definitivamente, anche se “il resto” consisteva in un’ocràda, da parte di babbo, che bisognava avere vescica di ferro per non farmela addosso. E manco potevano mandarmi “in camera tua!” perché la camera mia era abbondantemente condivisa con sorelle e domestica. Senza televisione era punizione da nulla, perché c’era solo l’ora della tv dei ragazzi, dalle 17.30 alle 18.30 e non avrebbe funzionato. Ma per un mese non mi mandarono agli scout.

Anni dopo ancora, le note da far firmare a casa erano uno spauracchio: cosa che spinse molti giovani intraprendenti ad allenarsi nell’ardua fatica di imitare la firma dei genitori. Io ero abbastanza ricercata tra le mie compagne perché riuscivo piuttosto bene, ma in genere la nota a casa restava un momento di puro terrore. In seconda scientifico avevo già disinvoltamente superato quel timore e ridevo delle mie compagne leprotte. Ricordo che il professore di francese ci spediva fuori dall’aula per ogni lieve infrazione, salvo poi impietosirsi alle lacrime della malcapitata che implorava il rientro in classe senza nota. Io spavaldamente restavo fuori, sempre in compagnia della mia inseparabile compagna di banco con cui condividevo voti, richiami, note e ferie. Un giorno che il prof buttò fuori solo me, dopo pochi minuti di noia passeggiando nell’andito del grande istituto, bussai timidamente in aula e lui burbero in attesa di una mia richiesta di grazia mi domandò: “Cosa c’è, Moncè, hai dimenticato di chiedermi qualcosa?”. Gli risposi: ”Sì, ho dimenticato Ernesta”. Ernesta saltò su, raccolse i libri e :”Fuori anche io?”

Tre giorni di sospensione ad entrambe, senza obbligo di frequenza e al ritorno accompagnate. Quella volta la temetti davvero, mia madre.

Ecco, qualche tempo fa rinfacciavo a mamma la sua severità davanti alle note scolastiche. Mi rispose andando in camera sua e rientrando con uno sgualcitissimo diario scolastico, il suo di quando era in terza magistrale. Mi mostrò l’unica nota della sua vita, con cui un professore le rimproverava di non aver portato il libro (l’atlante geografico) a scuola. Mi spiegò, mia madre già anziana, che quel libro lei non lo aveva perché, semplicemente, in casa sua non c’erano i soldi per comprarlo; la madre resa vedova da una guerra troppo grande per tutti, non poteva acquistarle i libri. E quell’anno mamma si ritirò da scuola per andare a lavorare, ritornando sui banchi alcuni anni dopo per conseguire il diploma faticosamente sudato. A mia mamma la lettera del papà che insegna al figliolo “a vivere” nei tre mesi estivi non gliela faccio manco leggere; perché mamma, 96 anni, maestra in pensione da 40, un padre minchione lo sa riconoscere ancora.

Marina Moncelsi.