Battoldighi soldados, di Gianni Cossu

12.07.2017 19:42

                                       

 

Battoldighi soldados 
tentende una giostra 
faghinde sentinella

battoldighi soldados…

Quel canto che aveva riempito molte notti di Sindia, tutte le volte che un giovane spasimante aveva intonato una serenata d’amore alla sua prescelta, accompagnato da una chitarra o un organetto, giungeva ora da un cortile poco distante da Piazza San Giorgio. Era ancora giorno però, e la voce era di una donna. Come ogni sera alla stessa ora, una vedova della Grande Guerra aveva preso il suo sgabello di sughero e si era seduta nel punto più alto del suo cortile per guardare in direzione del mare di Bosa. Aveva strizzato gli occhi e aspettato per qualche minuto, finché alla linea dell’orizzonte se n’era aggiunta un’altra un po’ più scura. Solo allora, dopo aver visto il mare, aveva intonato s'isterrida, i primi tre versi: quattordici soldati custodi di una giostra, a fare da sentinella.
Unu mutu, in memoria del marito ucciso dalla fanteria austriaca tanti anni prima, nel 1916. 
La vedova sperava che le parole di quella canzone, potessero arrivare prima o poi sulle onde lontane per essere trasportati, un giorno, fino al luogo sconosciuto dove Raffaele era caduto senza trovare una degna sepoltura. 
Solo questo canto. Per il resto, era silenzio nelle vie del paese. 
Ma in quel silenzio, dentro quelle note, un uomo si dirigeva al numero otto di Via San Giorgio per consegnare una lettera. Trascinava a fatica sul selciato le scarpe rinforzate con i chiodi. Il suo passo produceva un suono di povertà, di quella povertà che la guerra aveva reso insopportabile, e senza saperlo batteva il tempo al canto di tia Minnanna, agli ultimi versi monotoni e dolenti. Sa torrada, un incontro mancato, un amore mancato.
Battoldighi soldados…
Itte coppia bella
fu’ bistada sa nostra
si nol fumis amados.

Era la fine di maggio del 1942, e quel giorno, Olmiti Sanna, banditore e postino di Sindia, bussò alla porta di Giuseppa Basilia Meloni: 
- Postaaa! O poninde? Cosa ona bol batto, ebbeniminde! - 
Ripeteva sempre la solita battuta, sforzandosi di portare sollievo nella cupezza che regnava. 
Giuseppa Meloni non rise. Capì subito che si trattava di una missiva del figlio Sebastiano. La carta gialla della busta, col timbro dell'esercito al centro, era più esplicito del nome e cognome del mittente scritto in un angolo. Non accennò neanche un sorriso, sotto il fazzoletto nero annodato sul collo, e dimenticò di salutare il vecchio portalettere. Chiuse la porta con la stessa ansia che la condusse velocemente in cucina. Da un cassetto prese i suoi occhiali, raddrizzò la stanghetta riparata col filo da cucire, e facendosi il segno della croce cominciò a leggere.

Il figlio più giovane, partito al fronte da un paio d'anni, annunciava un suo prossimo passaggio alla stazione ferroviaria di Macomer, su un treno che lo avrebbe condotto a Cagliari; da lì si sarebbe imbarcato su un piroscafo diretto in Sicilia e poi in Africa, sotto il comando della Marina Militare. 
C'era dunque la possibilità di salutare, seppure fugacemente, i parenti che non vedeva da molto tempo, dall'ultima breve licenza che aveva trascorso in paese, l'occasione di abbracciare la mamma, “innantis chi su mare siat troppu mannu”, prima che il mare diventasse troppo grande. 
Giuseppa rilesse più volte quelle parole in sardo e le pronunciò ad alta voce per esorcizzare il turbamento che aveva sentito nascere dentro. Poi tirò fuori dalla busta una piccola fotografia, guardò a lungo il sorriso del figlio, e sorrise a sua volta a quel “custa est solu pro a tie” scritto sul retro, sotto la data dell’undici febbraio, giorno del suo ventitreesimo compleanno.

La sera stessa, Giuseppa Meloni aveva già programmato il viaggio verso Macomer: sarebbe servito un po’ di denaro, qualche provvista e indumenti di lana fatti a mano, utili per l'inverno. Ma soprattutto era necessario fare del pane fresco, di cui Sebastiano diceva di sentire con nostalgia il profumo e il sapore ovunque si trovasse.

Durante la seconda guerra mondiale, era in vigore la legge del regime fascista, l’ammasso del grano, che imponeva a tutti i contadini di versare quasi l'intero raccolto ai cosiddetti "monti granatici" e anche a Sindia, come in tutti gli altri comuni, non si poteva certo sfuggire a tale imposizione: il podestà e i suoi collaboratori erano vigili e determinati nel punire qualsiasi "evasione". 
Fare del pane appariva alla donna un'operazione impossibile. Ma rinunciarvi sarebbe stato come rinunciare a portare il dono più bello al figlio più amato e per tutta la notte pensò a come rendere possibile quell'impresa. 
La mattina dopo aveva già convinto il marito Giommaria a recarsi nei loro campi per raccogliere le spighe già mature e fare una piccola alzola, il necessario per mettere su qualche chilo di grano e fare una furtiva panificazione. 
L'operazione riuscì senza difficoltà, portata a termine nottetempo, e ora non c'era che da aspettare il giorno prima del viaggio per impastare la farina e farla lievitare. Su frementalzu era stato conservato con cura, avvolto in un panno e nascosto dentro una pentola di terracotta, con il segno di croce, impresso col pollice della mano destra, ancora visibile.

Un delatore, un collaborazionista del regime, forse un vicino di casa, informò il podestà dell'azione di "tradimento della patria" e nel giro di poche ore, dopo una breve perquisizione, Giuseppa Meloni e Giommaria Cossu finirono in manette e vennero trasferiti al carcere di Oristano. 
Vi restarono per oltre tre mesi, ricevendo solo poche visite dell'unica figlia rimasta in paese, l'unica non richiamata alle armi, e di un avvocato difensore di animo nobile. 
Per tutto quel tempo Giuseppa Meloni non pensò ad altro che a quell'incontro mancato e il suo senso di colpa prevalse perfino sull'offesa della prigionia. Dormì raramente e nei rari sogni vide solo uccelli neri di malaugurio che invadevano i campi di grano, enormi cavallette che oscuravano il sole. Il mare, che lei non aveva mai visto, era un mostro indistinto e minaccioso, una massa d'acqua scura che tutto inghiottiva. E ora non bastava incrociare le gambe sotto le coperte per tenere lontano quell’essere maligno che aveva conosciuto nelle sue giovani febbri malariche e che più volte le aveva tolto il respiro nelle sue visite notturne. Ora la visione immaginaria del mare era una coltre che copriva il suo piccolo corpo fino a schiacciarla contro il letto, era “s’ammuntadore”. 
Pregò giorno e notte e recitò tutti gli scongiuri che fin da bambina aveva imparato per scacciare i presagi del male.

Su lettu meu el de battos contones, 
battor anghelos si bi ponene, 
duos in pé e duos in cabitta 
Nostra Signora a costazu m'istada 
e mi narada drommi e riposa 
no timas peruna cosa no timas peruna cosa.

Sei mesi dopo, il 4 gennaio del ‘43, Olmiti Sanna, accompagnato da un carabiniere, risaliva Via San Giorgio con un telegramma in mano e col cuore in tumulto. Lo spediva il Ministero della Guerra. Doveva consegnarlo al civico numero 8.

Il Sergente Maggiore Sebastiano Cossu era affondato col piroscafo Aventino nello stretto di Sicilia, sotto i bombardamenti della marina inglese, all’una e trenta di notte del 2 dicembre 1942 durante una bufera di pioggia. Il suo corpo non era stato ritrovato. 
Da quel momento, e per tutto il resto della sua vita, Giuseppa Meloni non uscì più da un sordo dolore che l'accompagnò per altri vent'anni. 
E da quel giorno non volle mangiare più neanche un pesce. Neppure una di quelle sardine che mia madre preparava, col pomodoro fresco, d'estate, dopo l'ultima infornata di bistoccu, e che a me sembrava il piatto più buono che potessimo avere. - Podet essere chi calch' unu de issos si cheppada mandigadu a fizzu meu - diceva nonna Giuseppa volgendo lo sguardo altrove e nascondendo con la mano rugosa le lacrime che, inevitabilmente, ogni volta, le tornavano agli occhi.

Una lapide, ingrigita dagli anni, appesa a un muro nel cimitero di Sindia, riporta una frase che parla di eroi e di patria. 
Sotto, un sorriso ventitreenne.

Ogni tanto, quando torno in paese, vado a trovare quella foto di mio zio. 
Sistemo qualche fiore vicino alla lapide. Immagino di lasciare una forma di pane appena sfornato. Di sentire, nel silenzio, un canto.

Gianni Cossu