Una solitaria in un grande abisso, di Giovanni Badino.

12.10.2017 19:18
 

Con lo stile visionario delle imprese al limite delle possibilità umane, Giovanni Badino racconta la sua solitaria a Caracas (PIaggiabella).

 

Non c’è luna stanotte sul Marguareis, spazzato da un vento che scuote il rifugio e non mi lascia dormire.

Domani: son salito fin qui con Andrea e Walter per aggiungere un frammento alla silenziosa leggenda degli abissi di questa montagna. Domani scenderò solo, nell’ingresso più alto del sistema di Piaggia Bella. Caracas, toccherò il fondo e ritornerò fuori da dove son entrato, lungo i quattrocento metri di pozzi che da quasi vent’anni non vengono più risaliti: almeno, ci proverò. Non è la prima solitaria che faccio: due anni fa avevo percorso una grottina ligure la cui unica, non lieve però, difficoltà era un sifoncino, cioè un tratto di galleria sott’acqua, che avevo passato in apnea. Poca cosa, ma per me erano stati importanti i tre minuti passati con l’acqua alla vita a guardare, solo guardare, la galleria sommersa cercando di vedermi, me lì dentro: per poi immergermi, assistito solo dall’acqua tutt’attorno. Solitarie di dimensioni maggiori sono già state fatte da quando l’avvento della risalita su corda ha drasticamente ridotto i materiali necessari all’armo dei pozzi e reso possibili imprese altrimenti disperate.

Perché farlo? Difficile da dire: come, credo, le solitarie in montagna, chi vuole farle sa benissimo che la sua strada passa di là, ma non riesce a spiegare bene il perché.

Oltre alle componenti «normali» del far speleologia o alpinismo ci sarà quella dell’essere soli: e questo può avere molti significati per ognuno di noi. Può essere, banalmente, la ricerca della dimostrazione agli altri che noi da soli riusciamo a fare cose di estrema difficoltà. Povera solitudine questa, tesa al successivo racconto, alla glorificazione di se stessi (conquista di un articolo sul giornale!), all’occultamento temporaneo della propria insicurezza.

O può essere lo stesso discorso di lotta solitaria, ma fatto a se stessi. E questo scopo lo trovo più nobile del precedente perché è davvero solitario, non è una finzione, non è un teatro delle marionette con la platea plaudente; se proprio siamo marionette, diamo spettacolo allo specchio. Ancor più la solitaria può significare il tentativo di fondersi in una natura concepita, in fondo, animata, e in cui non riusciamo a collocarci. Cerchiamo per un po’ di tempo di essere un ghiacciaio, una fessura della parete, un pozzo, un ruscello sotterraneo ascoltato solo dalle tenebre. Può essere un annullamento della propria individualità, può esserne l’esaltazione e può essere, e forse è, entrambe le cose: è solo questione di prospettiva. Certo, secondo me, chi da una solitaria ha scoperto solo di essere forte, ha imparato poco.

Forse più che in alpinismo, sottoterra la solitaria ha significato, di tuffo in se stessi, di annullamento: ed è più facile evitare di compierla in funzione di un pubblico, dato che, in pratica, quest’ultimo manca. Anzi, forse proprio in questa mancanza si potrebbe individuare il motivo della scarsità di questo tipo di imprese. Toccava a me, ora.

Nel rifugio ho tre sacchi zeppi di 350 metri di corde, di materiali di sopravvivenza e di 600 metri di cordini di rappello. Già, perché per ridurre in termini ragionevoli il peso del materiale utilizzerò sui pozzi di maggiore profondità sempre una stessa corda, lasciandomi dietro un cordino di rappello messo doppio per recuperare dal basso risalendo.

La notte scivola via e lascia il posto a un mattino ventosissimo ma splendido: sono ancora incerto, lasciare questa luce per scendere nella inumana notte sotto di noi. Mi sembra di sentirlo dalla profondità il rumore delle gallerie deserte, dei torrenti: poi sento che solo inabissandomi risolverò questa specie di angoscia. Com’è strana quest’ansia di entrare: scenderò per spegnerla, per farla cessare: non mi attira entrare, ma so che mi sarebbe intollerabile non assecondare questa spinta. Chissà cosa staranno pensando Andrea e Walter, mi danno la sensazione di accompagnarmi a un rito: forse è anche la loro sensazione: forse, forse, quante incertezze provoca questa nostra goffaggine nel comunicare.

Ingresso, un varco con due pareti che si allontanano, staccate da tenebre, interminabili. Saluto sommessamente gli amici (la solitaria è già cominciata da tempo) e scivolo dentro lasciandomi dietro colori e spazio, soprattutto colori. Le pareti sono umide, coperte di fanghiglia. Avanzo fino a che il suolo sprofonda quindici metri sotto; butto giù una corda in questo primo pozzo, scendo e, maledizione, non arriva: e mentre ruoto a tre metri dal fondo, appeso al discensore, si stacca una pietra dall’alto e mi colpisce l’acetilene spegnendolo: incredibile. Risalgo pensando che se faccio in fretta raggiungo Andrea e Walter prima che arrivino al rifugio. Poi no, no, cambia corda e ridiscendi, giù.

E ancora pozzi, brevi in quel meandro malefico con la corrente d’aria che lo percorre incessante, proveniente da chissà dove. La sensazione di irrealtà comincia a prender forma, alimentata dalla crescente distanza dall’esterno e dalle allucinanti arrampicate sulle pareti scivolose coi tre sacchi. Pozzi, pozzi. Sui primi mi ripeto che arriverò poco in giù poi risalirò: poi non lo ripeto più.

Supero i primi diciassette pozzi, poi il primo gran salto, di 45 metri. Sotto, ancora tenebre spalancate, rumori di stillicidi, ancora la lieve brezza, le pareti adesso di calcari neri. Al fondo del salto devo mettere i cordini di rappello, perché la corda su cui son sceso mi servirà ancora in basso. Tiro sul cordino di richiamo per fare la sostituzione, ma è terribilmente duro. Tentenno, tentenno, continuare può voler dire rimanere bloccati qui per chissà quanto, se poi non riesco a far risalire la corda. Scorrono minuti, poi decido che sì, la corda risalirà, la recupero e riparto, lasciandomi dietro solo due cordini azzurri che scendono dal buio. Ancora pozzi grandi, quaranta, centoventi metri, oramai con l’allontanarsi del buco nero di accesso si è dissolta anche l’incertezza. Uno stretto meandro mi manda su un pozzo da venti e alla base di questo arrivo nel torrente, il segreto torrente dei Piedi Umidi. Lo seguo verso valle. Presto cominciano le arrampicate sui laghetti profondi; il mormorìo, nei vasti ambienti, a tratti è un rombo infernale. Ci sono un’infinità di passaggi in roccia da superare, raramente difficili, ma che richiedono sempre attenzione.

Finalmente il mondo degli uomini è al di là di un abisso, collegato a me da un esile legame di cordini da due millimetri. Finalmente sono da solo, dice una parte di me; e continuo ad avanzare frapponendo difficoltà sulla strada che riporta al mondo esterno, il mondo degli uomini. Sento crescere in me l’esaltazione di questa parte, perfettamente asociale, che ci cova dentro; la solitaria in un abisso di queste dimensioni sta amplificandola fino a possedermi: pensa che Caracas sia il mio ombelico e ci si sta tuffando dentro.

Sbuco alla Confluenza, dove il torrente dei Piedi Umidi si butta in quello di Piaggia Bella. Ricordo quando ero arrivato qui facendo la traversata solitaria: ero sceso a corde doppie da Caracas e poi, da questo punto, ero risalito lungo le gallerie di Piaggia Bella fino all’esterno.

Era stata un’impresa notevole ma non aveva, per tante ragioni, la superbia di questa di cui, in fondo, era preparatoria. Quando ero passato di qui avevo guardato la galleria dove adesso avanzo, che continuava verso la profondità, oscura e piena di rumori di acque. Avevo pensato alla distanza che c’era ancora prima del fondo e avevo escluso si potesse continuare fino là. Poi Andrea mi aveva detto che Lionesi e Cecoslovacchi avevano tentato, entrati in doppia da Caracas, di fare il fondo e di uscire da Piaggia Bella: e avevano fallito. Perché allora non attaccare da Caracas, fare il fondo e uscire da Caracas stesso, superandone i pozzi? e da soli? Dopo la traversata liquidai questa integrale come impresa inumana per la strettezza dei meandri, per i 600 metri di corda necessari con chiodi, carburo, viveri; e come erano da valutare gli incidenti, già gravissimi in compagnia (la grotta presenta difficoltà quasi insormontabili per il trasporto di un ferito), da soli e con i soccorritori che non sanno neanche dove sei, in un sistema di quattordici chilometri? Poi, avendo i mesi trascorsi cancellato il ricordo delle difficoltà, scopersi che, là sotto, ero atteso.

Viaggio ormai in gallerie ampie, che mi fanno dimenticare i meandri dai quali sono arrivato. Ancora scorre il tempo, ancora le tenebre si aprono davanti e si chiudono dietro. Dieci metri di arrampicata mi fanno sbucare nel salone più grande, il Paris-Côte-d’Azur, cinquanta metri di altezza e larghezza, il doppio in lunghezza. La debole luce sul casco non riesce ad illuminare le pareti lontane e crea una notte senza stelle su una montagna assurda, il cui suolo è fatto di enormi blocchi ricoperti da un velo di fango; aria fredda, silenziosa, immobile. Di nuovo i pozzi; e sotto di essi gallerie ricolme di frane e di acque, poi mi trovo a seicento metri di profondità, all’antico fondo del sistema. Qui un passaggio fra i blocchi di una frana mi permette di superare una galleria. Cominciano le arrampicate adesso, le più dure e pericolose dell’abisso, che mi portano su una nuova serie, l’ultima, di pozzi: brevi ma rombanti, col torrente in piena terribile a causa del disgelo. Forse se non fossi, come ormai mi sento, una parte di questo universo, rinuncerei: su due pozzi si deve attraversare il tumulto delle acque per fissare la corda. Ancora un salto di venticinque metri, diviso in due da un terrazzo occupato da un piccolo lago. Il tubo d’acqua si inietta in avanti e lascia fra sé e la parete spazio sufficiente per scendere, sulla corda, schiacciati contro la roccia gocciolante. La seconda parte del salto, in un rombo allucinante: scendo e ancora una volta la corda non arriva, come sul primo salto: sul primo e sull’ultimo. Risalgo, aggiungo uno spezzone e scendo; canyon finale, quasi settecento metri di profondità, dodici ore dall’ingresso: le due pareti, le stesse di un ingresso ormai troppo lontano per essere reale, salgono interminabilmente, a picco sopra il torrente, largo, piano e mormorante.

Adesso con calma risolvo gli ultimi passaggi, silenziosa l’acqua e silenzioso io: e forse silenzioso anche il Marguareis, su cui oramai sarà scesa un’altra delle infinite notti. Poi le due pareti staccate sul fianco della montagna si congiungono e sbarrano la strada; alla base un laghetto assorbe il torrente: la galleria continua sott’acqua. E’ il fondo, sono arrivato.

E non c’è trionfo, ma una strana sensazione di protezione, di superba solitudine. Dice il Tao Te King: «Raggiungi il vuoto estremo e conserva una rigorosa tranquillità. Raggiungendo un vuoto estremo e conservando una rigorosa tranquillità, mentre i diecimila esseri si dibattono, io contemplo il loro ritorno nel nulla».

Tardo in questa quiete fredda e scura, esitante a reimmergermi nelle cascate, nelle risalite, a iniziare la distruzione della costruzione gelida che ho edificato.

Calmo, metto dei rivelatori di colorante in un affluente e del nuovo carburo nell’acetilene; te lo ricordi il nero accesso sul fianco della montagna, battuto da un vento che qui non arriverà mai? Le cascate ricominciano a battermi addosso, gelide di disgelo, a torturarmi le orecchie. I cordini di rappello salgono, portano su la corda, e su questa salgo anch’io. Tengo basso l’acetilene per consumare poco carburo, che qui ha un valore inestimabile.

Stanchezza. Macino progressivamente le difficoltà, col torpore che continua a crescere. C’è del meraviglioso nella velocità con cui si opera da soli, anche se stanchi: mai attese, mai corse, ma solo un andare equilibrato con le proprie forze: che però svaniscono. Come raccontare l’avvicinarsi del confine delle tenebre, attorno a me, con la stanchezza e l’affievolirsi della luce; e l’intorpidirsi delle mani, ferite già all’inizio dal trasporto dei sacchi, dal freddo e dal continuo uso sulle centinaia di piccoli passaggi in roccia. La confluenza arriva (non era così grande e tenebrosa, però, dice una voce stanca in me). Mi stendo sulla roccia umida e, con la coperta spaziale distesa sopra, dormo. E’ il primo momento di riposo in venti ore; prima non potevo perché riposare con la temperatura poco sopra lo zero e in quell’umido significa prender molto freddo e intorpidirsi; essere in questa situazione, con ancora tutta la grotta da risalire, è un incubo.

Mi sveglio dopo qualche tempo (un’ora?), quando il desiderio di dormire diventa minore del freddo terribile. Potrei qui tentare di risalire lungo Piaggia Bella e sperare che da fuori aprano la dolina dell’ingresso inferiore, seppellita sotto quindici metri di neve; la discesa sarebbe ugualmente un’impresa notevole ma, in fondo, distruggerei tutto. Potrei, ma non mi viene in mente di farlo davvero.

E ricomincio con cascate, laghi, arrampicate su pareti nere, lucide di veli d’acqua, pozzi, lungo il torrente dei Piedi Umidi. Poi davanti ho la corda lasciata sul pozzo più basso di Caracas, il venti; salgo, staccandomi dal letto freddo e immutabile del torrente. Chissà da quanto è che scorre così, mormorando al suo stesso orecchio come faccio io ora. Poi le jumar arrancano lungo la corda del centoventi: mi chiedo se andrà su poi questa corda, lungo i pozzi superiori, tirata dai cordini. Ancora sessanta metri di vuoto, due fili azzurri che fanno salire la corda e poi salgo io, mentre le pareti grigie e lontane mi ruotano lentamente attorno.

Ancora pozzi e due sacchi pieni di corde bagnate e le tenebre gigantesche che riempiono tutto. Penso alla speleologia perfetta, quella non in gruppo o da soli, ma senza nessuno, la speleologia dell’ignoto totale, dei condotti percorsi solo da acqua e aria.

Fatica: alito che si condensa nell’aria dinnanzi al volto; è tardi, tardi mi dice il meandro. Corro quanto mi lasciano le mani e la stanchezza; l’accesso al mondo degli uomini è vicino ormai. Abbandono il disarmo perché il ritardo è di dieci ore e sono troppe. Andrea mi aveva detto che avrebbero cominciato a scavare nella neve che copre l’ingresso inferiore al mattino e adesso è ormai metà pomeriggio; ventotto ore sono trascorse da quando ho iniziato la discesa. Poi sono sotto l’ultimo salto; ne vedo la sommità, grigia di luce esterna; ed ecco il condotto che porta fuori, e all’estremità il cumulo di neve dell’ingresso, e dietro le assolate distese del Marguareis, e il cielo azzurro.

Giovanni Badino