S’ode a destra uno squillo di tromba... di Marina Moncelsi.

12.12.2015 22:53

Io alle favole ci ho creduto per un sacco di tempo.

Perché a noi, figli di amori postbellici, pasciuti bambini della Ricostruzione, le favole ce le raccontavano come per esorcizzare le paure degli anni addietro. Del resto, cosa aspettarci da genitori che avevano perfino creduto a un contaballe dalla mascella volitiva? E noi alle favole, quanto più erano incredibili tanto più ci credevamo. Ho creduto a tutto, anche se in maniera non proprio acritica e passiva: a Cappuccetto Rosso (e ho odiato il cacciatore, che la colpa non era del lupo, perché il bosco è casa sua e lui aveva da fare il lupo; cos’altro poteva fare?), a Biancaneve e ai sette nani (se mamma nostra riusciva a mettere in tavola tre volte al giorno sette scodelle, perché non doveva riuscirci Biancaneve? càncara era, solo perché era principessa?). Alla piccola fiammiferaia, che accendeva il fiammifero e vedeva il mondo come voleva lei: da favola, appunto…o forse non si accendeva solo quello.

Ho creduto alla cicogna, e perché no? visto che si materializzava in casa nostra all’incirca ogni due anni, lasciando nella culla la prova provata del suo passaggio. A Gesù Bambino portatore di doni (benché non accettassi che il suo aiutante in campo fosse Babbo Natale, cosa che cozzava con l’educazione gerarchica impartitaci dai genitori, per i quali i giovani dovevano fare i lavori pesanti risparmiandoli agli anziani). Insomma, a qualunque cosa fosse poco più che idiota, io idiotamente ci credevo. C’è stato un tempo in cui ho persino creduto al Principe Azzurro, il che la dice tutta sulle mia facoltà di comprendonio.

Con gli anni, Gesù Bambino non passava più manco sotto mentite spoglie. Però ci scambiavamo i doni tra noi, sorridendo della dabbenaggine d’infanzia (cacio, però…bette bello era crederci!). La cicogna graziadio aveva trovato altre famiglie da allietare. Le infelici fanciulle delle fiabe di Andersen avevano lasciato il posto, nella mia credulità, alla convinzione che un partito politico, e non più la fata Turchina, avrebbe salvato il mondo.

Insomma, nel 1969 avevo 15 anni, e giuro: avevo smesso di credere a quasi tutti i sovraelencati elementi. Solo l’ultimo persisteva, quella faccenda del principe, ma questa è un’altra storia.

E nel dicembre di quell’anno, lo ricordo…tornavo da scuola, e il telegiornale parlava di bombe, di morti, di sangue. Qualcuna tra quelle scodelle, a tavola, restò a raffreddare.

A cena già si sapeva di più: ed erano stati gli anarchici, e li avevano arrestati.

Ma a me gli anarchici erano simpatici, erano gli sfigati della politica italiana. Un po’ come i sette nani, un po’ come la piccola fiammiferaia, e restavo incredula a sentimento.

E dopo pochi giorni, Pinelli volò fuori dalla finestra della questura, a Milano. Ma non aveva gli stivali delle sette leghe, e c’era qualcosa che non quadrava.

Non quadrò mai. Nemmeno quando cercavano di farlo quadrare, quando arrestarono Valpreda; perché in quella quadratura del cerchio, i “testimoni” inspiegabilmente morivano.

Perché bisognava davvero essere predisposti al suicidio cerebrale, per credere a ciò che scrivevano i giornali.

Perchè alle favole si può credere, ma solo quando sono favole belle.

Marina Moncelsi.