Perchè non siete mai andati via, di Giovanni Gobbo.

30.10.2015 11:12

                                                

 

Perchè non siete mai andati via.

Una persona cara non può morire se non viene dimenticata. E’ momentaneamente assente, non è tra noi, ma qualcosa di lei rimane, sotto forma di pensiero, di ricordo, di esempio che ci rende migliori. Quando poi questa persona ha inciso profondamente sulla nostra vita, quando ha condiviso con noi delle cose belle e importanti, quando è riuscita a toccarci nel profondo dell’anima, allora la vediamo e la sentiamo come se fosse ancora con noi. Il distacco dai nostri cari è tristissimo ma dobbiamo accettarlo, perché anche questo fa parte della vita.

Ci sono state persone molto importanti per me.  Alcune di queste non ci sono più, ma qualcuna di queste persone è ancora idealmente con me, il loro spirito non mi ha mai lasciato. A loro voglio dedicare questo affettuoso omaggio, perché le porterò dentro di me per sempre. Non sono morti, sono ancora qui, con le persone che hanno amato, nei luoghi dove sono stati sereni e felici.

 

A mio padre.

 Il momento che più ricordo di te, il momento  in cui sono stato più vicino a te, è anche quello più drammatico e più doloroso dell’esistenza, quello della morte.

Non era mai stato facile per me capire certi aspetti del tuo carattere, introverso con i figli, molto severo ed esigente, ma sapevo che lo eri stato anche con se stesso: orfano di entrambi i genitori da molto giovane, avevi praticamente allevato due sorelle con le tue sole forze, facendo loro da fratello, da padre e da madre. Io ti vedevo come un padre distaccato e autoritario, ma eri riuscito ad allevare sette figli non facendo mancare loro nulla e permettendoci di studiare, a costo di sacrifici enormi. Per la tua mentalità di uomo e di padre all'antica, questo era amore vero.

Dopo una vita felice, con la famiglia intorno e tanti amici, la malattia ti aveva aggredito e costretto a letto per diversi mesi. Ed è vero quello che si dice: da vecchi si torna bambini, e i figli devono occuparsi dei genitori, quando arrivano al termine della loro esistenza. La tua malattia, e l’imminenza della fine, avevano spalancato quella corazza che aveva sempre protetto la tua discrezione e il tuo pudore.

Un pomeriggio ero seduto accanto al letto dove ormai passavi tutto il tuo tempo, immobilizzato da una frattura che non si saldava più. Soffrivi molto perché il tuo corpo era coperto da piaghe da decubito, ormai avevi perso la vista e anche la volontà di vivere, sapevi che non avevi più la possibilità di tornare a essere autonomo come prima.

Ad un tratto mi avevi detto “non ce la faccio più, sto passando una vita infame, voglio morire adesso”. Mi si era stretto il cuore ed ero riuscito a dire “Babbo  non dire così, la vita è preziosa anche quando si soffre, non va mai bestemmiata”.

Mi avevi risposto: “è finita la mia vita, me ne sto andando, lo sai vero?”

Avrei volute negare, ma avevo intuito che così ti saresti sentito ancora  più solo. “Si lo so, ma chi non viene dimenticato non muore mai. Lo sai, che ci rivedremo tutti insieme”.

“Non dimenticatemi, voi, non lo so se sono stato un buon padre, dimmelo tu”.

E allora ti avevo visto piangere, per la prima volta nella mia vita. Mia sorella si era affacciata alla porta della camera, forse un po’ bruscamente gli avevo fatto cenno di non entrare, avevo pensato, egoisticamente,  che stavo per crollare, e  non volevo che si vedesse. Non l’ho fatto, ma poi dopo ho pensato, molte volte, che piangere con te sarebbe stata la cosa più bella e più umana che potevo darti.

Quella sera é stata l’ultima volta che ti ho visto vivo. Non ti avrei certo lasciato, se non avessi avuto la sensazione che la fine era vicina ma non così imminente.

La notte stessa avevo ricevuto la telefonata con la quale i miei familiari mi avvisavano che  avevi appena chiuso gli occhi per sempre.

Questo é il ricordo più dolce che mi è rimasto di te.  Carissimo Babbo, sono contento che almeno in extremis te l’ho detto, che sei stato il padre migliore per noi.

 

A  mio fratello.

  L’ultima volta che ti ho visto è stato a casa di nostra madre in occasione della Pasqua. Eravamo abituati così sin da bambini, i nostri genitori ci avevano insegnato che in questi giorni le famiglie si riuniscono per passare la giornata di festa tutti insieme. C’eravamo tutti, ricordo che ci avevi chiamato per avvicinarci alla tavola, stavi stappando una bottiglia di vino per offrirci da bere.  Vino di quello buono, e tu eri solito compiere certi gesti, come lo stappare la bottiglia, a regola d’arte: a volte i rituali per te erano important, odiavi essere sciatto e volgare. Niente lasciava presagire la tempesta che avevi dentro.

Solo due giorni dopo, la notizia, terribile e drammatica, di quello che ti era successo, la rabbia impotente di chi pensava che si potesse fare qualcosa per fermarti. E poi la consapevolezza che comunque ognuno ha diritto di disporre della sua vita, e tu lo avevi fatto con pieno diritto. Ho capito solo dopo che il mio desiderio di averti ancora tra noi era egoismo: tu non saresti stato più lo stesso, e avresti vissuto da infelice, pieno di rimpianti e di rimorsi. Nessuno ha il diritto di decidere per te, chi resta qui può solo avere un immenso rimpianto per quello che ha perduto.

Mi succede spesso che io pensi a te con grande dolore e nostalgia, ma a volte mi sorprendo a sorridere, mi tornano alla mente certi tuoi atteggiamenti pieni di sottile ironia, e la battuta sempre pronta…. quante volte mi ero quasi scandalizzato per certe tue risposte, salvo poi ripensarci divertito… ma guarda questo che razza di uscite fa… senz’altro mi sarebbe piaciuto essere come te, essere spigliato e di compagnia, anziché essere un orso come sono.

Chi può sapere cosa passa nella mente di un uomo che vede crollare il suo mondo, quello che aveva sempre apprezzato e che lo aveva sempre appassionato… La passione coinvolgente e totalizzante per le corse, i motori, il gruppo di amici affiatati in mezzo ai quali eri un leader, perché sapevi svolgere alla perfezione le tue mansioni. E dopo la gara, il calore dell’amicizia, il rilassarsi davanti a un bicchiere di vino, le chiacchiere. Eri perseguitato dai tuoi errori, pensavi che niente sarebbe stato come prima, che il tuo mondo non ci sarebbe stato più. 

 Le tue paure di persona fragile ti hanno portato troppo lontano, ora sei libero, puoi  volare, in un mondo finalmente sereno e senza tensioni. La terra ti sia lieve caro fratello.

 

A  F. 

Io non penso mai a te come a un familiare, a un congiunto, in realtà sei stato uno dei più grandi e veri amici che io abbia mai avuto, proprio perché eri liberamente scelto tra tante persone. Era una questione di affinità, di feeling, potevamo stare molto tempo senza vederci, ma sapevamo entrambi che in caso di bisogno io c’ero per te, e tu c’eri per me.

Abbiamo sempre fatto della strada insieme, o materialmente o idealmente. Ricordo gli scherzi folli, e le risate, come se fossimo sul set di “Amici miei”. O i cento chilometri in macchina per le vie della città, fino alle prime ore del mattino, senza meta, parlando del senso della vita, dei nostri progetti, degli amici, della famiglia, del lavoro. Ricordo anche nitidamente la prima epica avventura in montagna, che aveva segnato l’inizio della nostra passione per il trekking.

Ricordo il periodo delle rivolte studentesche, le fughe a rotta di collo per evitare le cariche della polizia, il periodo delle occupazioni delle scuole: avevamo la bellissima sensazione che potevamo decidere il nostro futuro. Ci sbagliavamo, ma ci sentivamo vivi, protagonisti di un cambiamento.

Ricordo il nostro convinto ateismo, perché così si conveniva a due orgogliosi extraparlamentari di sinistra. E le prime crepe nelle nostre convinzioni: tu eri cambiato profondamente dopo un viaggio ad Assisi alla ricerca di San Francesco, e io dopo un’esperienza di volontariato a Lourdes, a disposizione dei malati. O più probabilmente questi nostri viaggi non sono stati una causa ma una conseguenza di quello che è il miracolo più frequente e di cui meno si parla.

Né la famiglia né il lavoro ci avevano mai realmente fatto perdere di vista, avevamo conservato l’abitudine di  vederci ogni tanto per un caffè e due chiacchiere. E non avevamo mai rinunciato a scherzare e a prenderci in giro, forse per esorcizzare la vecchiaia che si avvicinava a grandi passi.

Te ne sei  andato in una mattina invernale, colpito da un arresto cardiaco durante una pausa di lavoro, proprio in un momento di grandi speranze e di ottimismo per gli affetti e per la tua attività.

Io continuo a pensare a te con grande serenità, ho la certezza che ci rivedremo da qualche parte. Ogni tanto ripercorro quel grande canyon fino al mare, come a voler rivivere quella splendida avventura di quarant’anni fa, e in quella natura meravigliosa mi sembra di sentire ancora la tua voce e le tue risate.  Magari non sei morto davvero, quasi mi aspetto che tu spunti fuori all’improvviso, con la tua risata beffarda, forse  ti sei nascosto da qualche parte per prenderci in giro.

 

A  S. 

E così anche tu sei andato via, caro amico mio, mi hai abbandonato. Ma non ti ricordi cosa mi avevi promesso? Che dovevamo rimanere anche da vecchi nella nostra associazione, perché anche se decrepiti e immobili come mummie, dovevamo fino all’ultimo rimanere a berci un bicchiere di vino tra amici, e ricordare tutte le avventure in montagna. E’ per questo che, quando io sono mancato dal gruppo per qualche anno, tu hai continuato a pagare l’assicurazione anche per me. E quando avevo deciso di rientrare, tu me l’avevi detto con noncuranza, come fosse stata la cosa più ovvia del mondo: “tu sei sempre stato assicurato e in regola, perché io lo sapevo che tornavi, ti stavo aspettando”. Non te l’ho mai detto, che a momenti mi andava di traverso il caffé, questo fatto, questa grande manifestazione di amicizia, mi aveva commosso profondamente.

Tu eri così, una persona buona, leale e con principi solidi. Sedersi con te davanti a un caffé a chiacchierare mi dava una serenità straordinaria, sapevo di essere con un amico sincero, e questo appuntamento era diventato una consuetudine.

Poi era arrivata la malattia, subdola e inesorabile. Ma non ti ho mai visto scoraggiato o impaurito, e se lo eri, me lo hai nascosto molto bene. E proprio nel momento di dedicarti ai tuoi affetti, dopo una vita di lavoro, te ne sei andato, in punta di piedi, con grandissima dignità.

Il giorno del tuo funerale tua moglie e tuo figlio, quasi mi avessero letto nel pensiero, mi hanno dato il tuo berretto, che ti aveva accompagnato in tante escursioni in montagna. In molte parti del mondo si dice: “la mia casa é dove io appendo il mio berretto”. Ecco mio caro amico, a me piace pensare che se il tuo berretto é qui con me, la mia casa é anche la tua casa, e che tu sei ancora con noi. Perché ti ho nel cuore, perché ti vedo, perché ti sento. Lo sai che ci rivedremo, amico forte e buono. Riposa in pace.