Per me niente Osciàn, per cortesia. Di Marina Moncelsi.

30.05.2013 14:16

Le cotolette erano già fritte e facevano una piramide sulla carta assorbente per l’olio. A mamma erano toccate quelle, negli accordi pre-pasquali con cui si era deciso dove andare. Al mare va bene, ma in pineta, che un po’ faceva campagna. Qualche volta c’era il tancato di compare Bustianu, che era compare solo a babbo e a mamma ma noi lo chiamavamo così, con la comparìa che si estendeva a tutta la prole.

Però se la Pasqua era di mezzo aprile, meglio al mare che magari ci scappava pure una mangiata di ricci.

Per non darsi troppo pensiero mamma ci rifilava le cotolette anche la sera prima a cena di Pasqua, in aggiunta all’avanzo di arrosto del pranzo, chè ne aveva cucinato per un esercito, di fettine impanate. E in effetti un esercito sembrava quella fila di auto stipate fino all’inverosimile di figliolanza e vettovaglie, cassette di frutta e damigianette di vino.

La frutta ritornava triste e pesta a notte fonda, nel bagagliaio della Giardinetta di babbo che le avevamo abbassato i sedili per starci tutti. La contentezza quando si era comprato la millecento, che ci conteneva senza farmi prendere in grembo da mamma!

Alla frutta di fine pranzo non ci arrivava nessuno, perché gli infiniti antipasti con seguito di culurzones e di arrosto rituale, e le vassoiate di insalata che costituivano “su pranzette” ci avevano già saziati.

A dirlo così sembrava una cosetta da niente; ma dietro c’erano trattative durate alcuni giorni: ci si metteva d’accordo prima sul luogo, poi sul menu, poi su quante famiglie avrebbero partecipato alla scampagnata. Il menu veniva inevitabilmente stravolto dalle signore mamme, nessuna delle quali avrebbe rinunciato a competere con le altre (fossero sorelle, cognate o vicine di casa) sulla propria abilità culinaria. E così, anche se il contratto prevedeva che i culurzones li portasse zia, saltava fuori una di quelle insalatiere da mensa aziendale piena di ravioli nuoresi che qualche solerte massaia aveva preparato tanto per un assaggino in aggiunta. E mentre le competitors si sfidavano a suon di pasta ripiena, noi giurati ci straffogavamo senza ritegno di quel bendidio.

Tanto poi avremmo digerito anche i sassi, in quel lunghissimo pomeriggio di corse,giochi e arrampicate sugli alberi. Gli adulti non si muovevano dall’ombra degli ulivi (o dei pini, vedere sopra alla voce: scelta del luogo) e solo ogni tanto mandavano un fratello grande a cercarci e a fare la conta, non sia mai che qualcuno si fosse perso giocando a nascondino. Il fratello grande (al momento impegnatissimo a fare lo scemo con la new entry, una fanciulla che era stata provvidenzialmente invitata assieme alla famiglia perché imparentata con il vicino di casa che partecipava all' allegra brigata) era ben felice di cercarci assieme alla sua nuova-forse-ragazza, sperdendosi per fratte e frasche e lasciandoci giocare in santa pace.

Ogni tanto qualcuno metteva mano alla chitarra, e allora erano cantate collettive da far migrare tutta la fauna campestre e boschiva, mentre il vino scorreva a bidoncini. La faccenda del vino era fuori da ogni precedente concordato: ciascuno aveva il diritto (il dovere era fuori discussione) di portare quello che riteneva fosse “il migliore”. Ovviamente, il proprio.

Al contrario, il diritto a preparare l’arrosto (jus secolare la cui trasgressione può comportare rotture di comparìe così come ne può determinare di nuove, perché è chiaro che ci sono delle competenze indiscusse in ogni gruppo sociale, e le competenze dell’arrostimento agnello o porcettochesia non si discutono nemmeno un po’: chi ha meriti, gli siano riconosciuti, che diamine! ) era un diritto sancito da una lunga convenzione non scritta ma intoccabile.

Gli anni passavano, e dopo la giardinetta e la millecento ci furono altre auto da riempire di gitanti, cassette, fiaschi e stoviglie; arrivarono le Pasquette trascorse tra ragazzi, e niente analisi dei vini ma interminabili discussioni sul primato di Icnusa o Nastroazzurro, e niente culurzones ma l’arrosto non mancava, qualche volenteroso lo sapeva istiddiare lo stesso, e al posto della zuppa inglese di zia c’era la colomba Motta comprata al negozio. Le canzoni stonate di Gianni Morandi venivano sostituite da quelle di Fabrizio De Andrè, più abbordabili anche dalle ugole meno pavarottiane, e a salvare la sconquassata canèa c’era sempre il comandante Che Guevara urlato in un improbabile sardo-spagnolo. Gli amori primaverili si chiamavano “storie” e duravano fino all’estate che arrivava con il suo carico di materie da rimediare a settembre.

Poi arrivò l’era dell’agriturismo, che è ugualmente in campagna, lo dice la parola stessa, e i bambini prendono aria sana e si divertono che nel recinto ci sono i cavalli da ammirare.

 

Questo è l’anno dell’Auchan aperto il lunedì di Pasqua, non si sa mai che la famigliola sempre più ola si voglia riunire in supermercato, o da mecdonald e magari incontri i vicini di casa che non sanno anche loro dove andare.

Ma sarà che ho l’età dei ricordi, sarà che questa notizia dell’Auchan aperto a Pasquetta mi ha girato le eliche, ma io le favette sgusciate e mangiate sul posto con Babbobuonanima che suonava il banjo e i grandi cantavano, ancora me le piango.

E non solo perchè sono fabica.