E se Gesù Bambino fosse mancino? di Marina Moncelsi.

30.05.2013 14:38

La scatola era, immancabilmente, di latta. Faceva compagnia a quell’altra, un po’ più bassa, che un tempo aveva custodito le bottiglie dello Stock84 e dell’Orange Brandy,ed erano proprio natalizie natalizie tutte e due, con il coperchio che raffigurava un albero di Natale e già da quando erano nate se lo aspettavano, che dentro ci sarebbero stati fili argentati e dorati e statuine e addobbi di vetro. Quando venivano aperte capivano che era il tempo, che era Natale. Cioè, Natale proprio non ancora, ma sapevano che stava arrivando, e che il loro contenuto sarebbe stato delicatamente depositato sul tavolo grande, quello del soggiorno, per tornare a vivere. Il letargo delle casette e delle statuine durava un anno giusto giusto: il risveglio era ai primi di dicembre, per finire alla data fatidica del 7 gennaio, di pomeriggio. La sera dopo l’Epifania quella scatola si sarebbe richiusa sopra le casette di cartone e sughero, sulle statuine pazientemente restaurate e amorevolmente incartate, su un Gesù Bambino a cui ogni Natale bisognava chiedere scusa se restava con un braccino per aria e l’altro un po’ monco, ma era troppo piccino per riuscire a fargliene uno nuovo. Perché noi ragazzini, ad ogni dicembre che Dio mandava sulla Terra, passavamo in rassegna le statuine del presepio e facevamo la lista delle ricostruzioni; in genere erano interventi ortopedici, chè andavano rotti braccia gambe e quasi mai la testa, meno male se no bisognava darsi da fare a dipingere occhi bocca e capelli, mentre rifare un braccio o un piede era più facile. Lo sapevo fare pure io, anche se ad un pastorello avevo riattaccato un piede all’indietro e per evitare le frecciate dell’artista di casa avevo dovuto immergere il povero sciancato nel muschio alto così. Il muschio era la parte più interessante del presepio: il rito della ricerca-muschio iniziava un paio di settimane prima dell’allestimento-presepio. Si andava alla Solitudine; in fila come una squadra di ranger (la parola mi piaceva tanto, era un ranger pure Capitan Miki, il mio eroe preferito) camminavamo lungo i sentieri che il nostro caposquadra, il cugino grande, ci indicava con piglio deciso. Allungava il braccio, col dito indicava una macchia scura e ”là!” ordine perentorio, a ciascuno un paio di metri quadri di scorticamento muschio. L’operazione era anche l’occasione per mostrare la valentìa di ciascuno, pure i più piccoli sapevano come fare a prendere il muschio; ma i più bravi riuscivano a non rompere il proprio tappeto verde, e a portarlo a casa in un unico pezzo. Io consideravo già un successo non lasciare nella strada del Monte qualche falange tagliata di netto col coltello che mi portavo appresso all’insaputa di mia madre. A suo avviso il mio compito doveva limitarsi a portare le cassette per le zolle di muschio. Eja, certo! che andavo fino alla Solitudine solo per fare la tzeracca… I miei pezzetti di muschio, comunque, servivano a coprire spazietti e interstizi in quell’enorme presepio in cui le pecorelle si pascevano tra laghetti di stagnola e distese di erba in zolla unica. Cugino Rosario era più bravo di me a riportare a casa ampi scampoli di quel velluto vegetale; ma io avevo un fratello che sapeva fare le case di cartone e di sughero e ci metteva dentro le lucette. Lui no. E avevo anche un fratello che sapeva ricostruire le statuine di gesso. Le statuine avevano un sostegno interno in fildiferro attorno a cui modellavamo un po’ d’argilla. L’argilla la trovavamo scendendo sotto i Grandi Magazzini Cicalò, dove “gli altri” andavano a comprare pastorelli pecorelle e re magi; noi andavamo direttamente dal produttore, una scarpata lì vicino dove si trovava la terra rossa, perché ogni anno si perdevano qualche pezzetto a maneggiarle senza attenzione, quelle statuette. Che mica le nostre erano di plastica come quelle moderne, no! Noi ce le avevamo da quando eravamo nati, sempre le stesse, magari aggiungevamo un po’ di pecorelle ma mica molto di più. Già bastavano. E dopo che le protesi erano essiccate, Elio metteva mano a colori e pennelli e ricolorava il tutto. Poi, se non si trovava quello giusto, gli si cambiava il colore della camicia intera al pastorello restaurato, perché vabbè che erano poveri come c’era scritto in quella poesia che imparavo a memoria l’ultimo giorno di vacanza, ma almeno la camicia era di colore uniforme. Il problema era il Bambinello: sdraiato nella mangiatoia, anch’essa di materiale friabile come un wafer, negli ultimi anni gli si era praticamente eroso il braccino destro. E piccolo come era, non aveva nemmeno lo scheletro di metallo a sostenere un nuovo arto, perciò era rimasto monco, e a vederlo mi si stringeva il cuore, che con tutta la nostra buona volontà non si riusciva a ridargli simmetria. Ricordavo vagamente che un tempo teneva sollevate entrambe le braccia, come a volerci benedire; ora pareva quasi volesse irroccarci, con quella specie di saluto romano poco convinto. Se gli fosse mancato anche il sinistro, tipo Nike di Samotracia, sarebbe stato meno inquietante, ma ogni volta che mi cadeva l’occhio dentro la capanna mi faceva sentire in colpa. Tra me mi consolavo sperando fosse mancino, ma nessuno me ne aveva dato certezza. E allora, un giorno in cui il disagio per il sacro arto mancante si era fatto più forte, sferruzzai in pochi minuti un quadratino di lana e lo coprii dal collo ai piedini. Mia madre fu commossa della mia devozione. Io continuai a sperare che Gesù Bambino fosse mancino.