Di prime, di seconde, e di secondi giorni, di Marina Moncelsi.

13.09.2016 23:10

Il mio primo giorno di scuola di prima non lo ricordo come lo ricordano gli altri, perché molto normale non fu; ero a mano di mamma e sono entrata in un edificio che mi era sembrato enorme, io e lei sole, e poi un corridoio lungo e ci è venuta incontro una suora. Meno male che non avevo ancora fatto esperienza di ospedali, se no mi sarebbe sceso un’ispantu. Mamma parlò con la suora, io mi facevo i fatti miei perché nei posti nuovi mi ha sempre accompagnato la curiosità; e poi a casa.

Mamma mi disse Da oggi vai a scuola e comportati bene se no ti mandano via.

Il pomeriggio ritornai con la tata che mi lasciò lì. Non ero spaventata per nulla, perché andavo spesso a scuola da mia mamma e vedevo scolaretti di tutti i generi; mamma insegnava nei migliori college del Campidano e del Sarrabus, e la scuola mi pareva una cosa meravigliosa: bambini liberi di correre senza scarpe (non mettevo in conto che, semplicemente, non le avevano) che uscivano e rientravano dalle finestre con mazzi di fiori di campo raccolti nei giardini all’inglese delle scuole, generalmente ricavate da vecchi casolari spersi e ad uscire dalla finestra bastava scavalcare il davanzale ed eri già in aperta campagna. Lì potevi raccogliere cardi ed asparagi, e quei ragazzini lo facevano volentieri e tornavano a casa con il prodotto della loro forzata scolarizzazione. Mamma chiamava la bidella perché andasse a recuperarli, ma loro rientravano solo dopo le debite contrattazioni. Ancora in casa conserviamo le foto di quelle composite scolaresche: mamma era una canaglia perché anziché nascondere i bambini scalzi in ultima fila e mettere davanti quelli scarpati, faceva il contrario e ai blackfoots gli dava la soddisfazione del primo piano seduti in basso. Grembiule e fiocco manco a cercare il figlio del dottore. Forse per quello la scuola mi sembrava una cosa allegra e libera.

Le suore della mia scuola non mi spaventavano nemmeno un poco, solo mi sembravano un pochettino strambe per come si vestivano. Avevano le caramelline senza carta e di tutti i colori e ce le davano ogni volta che ci comportavamo bene. A me mai, allora passavo a salutare la suora della classe di mio fratello più grande che era in terza, e lei mi accoglieva offrendomi le sue.

Ai bambini più bravi attaccavano al grembiule un fiocchetto con la medaglietta della madonnamiracolosa che sembrava d’argento, ma a me non la davano mai e comunque aspiravo alle caramelle. Mio fratello era bravo davvero e un giorno che lo avevano ammedagliato per la ottantasettesima volta, gli proposi lo scambio caramelle-medaglietta per sentirmi complimentata anche io, mi disse di no manco se lo pregavo in ginocchio, allora lo picchiai e gli presi il trofeo completo di nastrino. Lui però era bravo davvero anche con me e non disse nulla a casa, ma mamma lo scoprì lo stesso perché le suore erano diaboliche: applicavano un nastro di colore diverso a seconda della materia in cui si era stati bravi, e quel giorno il nastrino segnava geografia, perciò non poteva essere mio. Mi diede una sussa che me la ricordo ancora e odiai le medagliette mancari benedette.

Mamma mi ripeteva che dovevo comportarmi bene perché ero uditrice; io non sapevo cosa volesse dire, ma era una parola che racchiudeva in sé il pericolo costante di espulsione. Poi feci l’esame e mi mandarono in seconda, ma anche mamma e babbo erano stati mandati avanti, e ci trasferimmo tutti a Nuoro in autunno. A Nuoro ci accolse la pioggia che a Sanluri non vedevo mai e quando c’era facevamo festa in cortile. A Nuoro il cortile non ce l’avevamo e la pioggia mi schiaffeggiava appena scese le scale e uscita dal portoncino di casa, e mi sembrava brutta e cattiva. A Nuoro era il 23 ottobre e la scuola di seconda era già iniziata. Mamma era incinta grossa, lo deduco oggi dal fatto che due mesi dopo ci arrivò di nuovo la cicogna; a scuola mi accompagnò zia Rosalba la sorella giovane di babbo, che ancora non era sposata ed era solo zia. Zia mi aveva regalato la borsa all’ultimo grido, rossa di plastica, ma io mi vergognavo perché era grande e io ero ancora piccola per riempirla tutta. Allora mi ricordo che ci mettevo dentro un sacco di roba, soprattutto libri dei miei fratelli per farla pesante così mi sentivo grande anche io. Il primo giorno di scuola piovigginava e nel cortile del Podda c’erano un sacco di bambine tutte più grandi di me, e una maestra che più bella di lei non ce n’erano altre; quando zia mi stava lasciando, le chiesi se era sicurasicura che potevo restare con loro anche se non era vestita da suora, e questa cosa fece ridere la maestra in un modo che mi riconciliò con il cortile bagnato di pioggia. Seppi così che anche mia mamma era una “vera” maestra, anche se i suoi alunni erano strani, e che si può fare l’insegnante pure senza essere suora (cosa che tenni da conto per tutta la vita, infatti non presi mai i voti ma li davo). Nel banco mi misero con Nevina che era piccola come me e aveva perso da poco il babbo, un artista importante che era stato professore di mia mamma e questa cosa che anche le mamme erano state scolare mi dispose bene verso la storia. Anche questa faccenda la tenni da conto per il resto dei miei giorni.

La seconda elementare rappresentò per me ciò che per gli altri è stata la prima: fino ad allora avevo solo giocato con un’idea di scuola, ma da quel giorno conobbi la penna stilografica che se premevi troppo ti macchiava tutto il foglio e dovevi ricominciare daccapo, mentre in prima usavo la cannuccia col pennino e intingevo il tanto giusto nel calamaio fissato al banco, e appena avevo imparato la giusta dose di gocce d’inchiostro ecco che mi si stravolgevano gli equilibri con questa faccenda della penna a stantuffo. Ma la cosa più tragica fu dover mettere i numeri in colonna per fare le operazioni, perché in prima mi avevano insegnato le operazioni lineari; questo trauma mi accompagnò tutta la mia vita di studentessa e infatti io e la matematica abbiamo ancora un conto in sospeso, Freud queste cose le spiega bene.

Tutto questo per dire che il mio primo giorno di scuola per me è il secondo perché ero in seconda e lo ricordo bene del tutto. Ed ero pure in ritardo di qualche settimana perché gli altri avevano iniziato prima di me che me ne stavo a vacanzare al caldo mediocampidanese. Ecco, per dire che io un po’ di ritardo ce l’ho anche quando gli altri mi credono in anticipo. 

Marina Moncelsi.